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Khelif era solo l’antipasto. Paralimpiadi trans: campione da maschio, sarà in gara tra le donne

La Narrazione va oltre il caso dell’atleta algerina: Valentina Petrillo correrà tra gli ipovedenti nella categoria femminile. Ma è stata campione tra gli uomini

Khelif Petrillo © subinpumsom e Daboost tramite Canva.com

Uno dei comandamenti della Narrazione cannibale è: non vanno lasciati spiragli di realtà, la menzogna deve essere pervasiva e assoluta come l’occupazione cinese di ogni spazio. Le Olimpiadi affondano nelle sabbie mobili delle atlete di dubbia matrice cromosomica? Ecco che le Paralimpiadi si adeguano in modo da non lasciare margini di normalità.

Assistiamo dunque alla beatificazione di tal velocista Valentina Petrillo, celebrata da uno di questi siti dall’informazione a tema che per brevità e per indulgenza possiamo chiamare “globalista”, per dire la comunicazione pseudogiornalistica che segue la cosiddetta Agenda woke. Non se ne capisce granché perché simili celebrazioni, affidate si direbbe ad amatori o apprendisti, esagerano nella narrazione, nel romanzo d’appendice, ma in una prolifica confusione. Quello che par di arguire è che in questo caso la situazione è anche più estrema delle “pugile” algerina o taiwanese di dubbia costituzione fisica: qui c’è semplicemente uno che non si accettava come maschio, seppur generativo maschile di un figlio, anzi un figli* e ha deciso a un certo punto di decidersi altro, di volersi donna: e tanto basta alla Narrazione, alla buffa informazione da agenda, al CIO e, si presume, a una platea di lettori viceversa sempre più indifferenti e magari insofferenti, per saturazione e perché anche i più candidi prima o dopo avvertono quello sgradevole senso di manipolazione, e non gli piace.

Questa è parainformazione che parla a se stessa, che converte i convertiti. “Ho vinto undici campionati italiani da corridore ma non mi sentivo a mio agio”. E allora Vale è partito, partita, fate vobis, con la trafila dell’autopercezione e l’autocertificazione: “Ho anche corretto il passaporto”. Quand’è così. E adesso va alle Paralimpiadi in quanto ipovedente; più esattamente, “transgender ipovedente”. Nessun margine di dubbio, solo certezze che contengono certezze, matrioske di certezze: con sicurezza Valentina è, resta biologicamente, fisiologicamente maschio, alla Luxuria per capirci; con sicurezza si sente, o si preferisce, femmina; con certezza corre con e contro le donne. Va bene. Il resto è feuilleton, “il cumulo di bugie raccontate a se stessa si fa sempre più pesante e quindi fa coming out”. Ma la menzogna sta nell’essere o nel percepirsi, nel non essere, nel fingersi sapendo che è finzione?

Undici campionati nazionali vinti, ma la gloria arriva, se arriva, dal percorso non binario che ti mette nell’alone di luce dell’informazione pubblicitaria e ti porta i documentari televisivi “sull’inclusione della comunità LGBTQIA+”. La sensazione è sempre più quella di una realtà irreale, costruita sulle nuvole, ma non è precisamente questo il fondamento dell’ideologia woke, fare soldi sull’aria, su quello che non c’è, sul mare di chiacchiere che copre tutto, travolge tutto? La Narrazione, anche questo lo si è detto le mille volte, si avviluppa nelle proprie contraddizioni ma le supera censurandole o ignorandole: la federazione olimpica italiana ha fatto la sua polemica, timida invero, sulla “pugila” algerina che ha indotto al ritiro precoce la nostra Angela Carini, e poi manda alle Olimpiadi dei disabili una che non è neppure in dubbio, che è maschio a tutti gli effetti anche se ha ritoccato, a pennarello, testosterone e carta d’imbarco?

Con una battuta sgradevolmente scorretta si potrebbe dire: pensa più al travone nel tuo occhio che alla pagliuzza in quello altrui. Ma si tenga presente che è uno scherzo a fronte di una situazione viceversa grave anche se non seria: dove porta infine, dove arriva questa nuova religione del possibile, del capriccioso? Quali le condizioni ultime, gli effetti conclusivi e irreversibili, irreparabili? Fino a quando le nostre società occidentali, liberali, sempre più autofagocitate (quelle islamiche non hanno simili problemi, per loro fortuna o sciagura), potranno tenersi insieme col collante dell’inganno, dell’io sono quello che mi credo o pretendo di essere? Non è un processo che mina, fino a farle franare, le fondamenta stesse dello stato di diritto, erette già da Platone, da Aristotele, passando per il legalismo razionale di Cicerone, per le istituzioni di diritto romano che correggono e incalanano gli eccessi idealistici o misticheggianti del cristianesimo? Insomma come fa una comunità organizzata a regolarsi su ciò che le pare e piace e null’altro?

In attesa di risposte possibilmente logiche, di filosofie salde, non improntate a soluzioni suggestive o mercantilistiche, limitiamoci a prendere atto del processo di autoannientamento delle nostre democrazie per eccesso di tolleranza, anche della follia: se basta dichiararsi sani di mente per non essere pazzi! Poi queste derive nell’allucinante finiscono alla maniera autoritaria del Comma 22 o del Panopticon globale “per il nostro bene”, per le ragioni superiori della salute collettiva che partono con una immunizzazione di massa, da topi, e finiscono con l’obbligo o il divieto di essere in un certo modo, ossia di esistere. Sono scenari che conviene, per il momento, ancora ignorare, ma la cui resa dei conti, per quanto differibile, è certa e certissimamente traumatica in quanto catasrofica. Altra cosa certa, per tornare ai minima immoralia dello sport colonizzato dal woke, è che uno, una, o, come piace oggi farsi chiamare, “loro”, può o “possono” definirsi a piacimento, ma confondere gender e invalidità, usare questa per legittimare quella non pare granché come soluzione, non in senso sportivo, non a dimensione di coscienza e dignità.

Max Del Papa, 13 agosto 2024

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