È iniziata la “fase 2” della guerra tra Russia e Ucraina. Dopo il fallito assedio della capitale Kiev, gli obiettivi di Putin sembrano essersi ridimensionati: gli sforzi si concentrano su larga scala nella regione del Donbass, in parte già sotto il controllo dei militari filorussi. Diecimila soldati dell’Armata, che hanno già combattuto a Kiev, dovrebbero spostarsi verso la regione nel tentativo di accerchiare i reparti ucraini e obbligarli alla resa. L’esercito russo ha quindi iniziato il suo riposizionamento e sarà pronto a sferrare il colpo finale sul Donbass, agendo essenzialmente su tre lati. A sud, con la quasi certa caduta dell’eroica resistenza di Mariupol; ad est, direttamente dal confine russo; a nord, grazie alla diretta cooperazione della Bielorussia di Lukashenko.
Putin contro tutti
Nel frattempo, sul piano diplomatico, le accuse tra i due schieramenti volano. Zelensky parla di armi chimiche usate dai russi a Mariupol, Irpin e Lugansk. Il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ritiene responsabile l’Ucraina di aver cambiato le bozze dei negoziati ed accusa gli Stati Uniti di fomentare il governo nazionale nel proseguire le ostilità. Anche la Turchia, che nel corso del conflitto ha assunto un ruolo centrale nel campo della diplomazia e della mediazione, si scaglia contro Putin, parlando di oscurantismo “dell’atmosfera positiva dei colloqui”. Insomma, tutti contro Putin e Putin contro tutti.
Cosa chiede Mosca per la pace
Le iniziali richieste del Cremlino sembrano ormai mutate dallo scenario bellico. Basta con la rivendicazione dell’intero Paese e l’instaurazione di un governo fantoccio filorusso. Attualmente, le condizioni di Mosca per raggiungere una pace sono essenzialmente tre:
1. consolidamento del Donbass e della Crimea;
2. eliminazione del Battaglione Azov;
3. “garanzie di sicurezza” circa future esercitazioni militari ucraine.
Dall’altro lato, Zelensky continua a rivendicare l’integrità territoriale, ammettendo eccezioni solo per la Crimea, pur accettando la richiesta russa di eliminare dalla Costituzione l’aspirazione ad entrare nella Nato, nonché la rinuncia alla presenza di armi nucleari di altri Stati su suolo ucraino. Sotto quest’ultimo profilo, in realtà, esisteva già un accordo tra i due Paesi dal 1994. Il memorandum di Budapest, infatti, impegnava l’Ucraina a rinunciare alle proprie testate nucleari, che poi furono consegnate al Cremlino, ricevendo in cambio il riconoscimento della propria sovranità ed indipendenza. Inoltre, l’accordo formale prevedeva una schiera di Paesi terzi, tra cui Usa, Cina, Regno Unito e la Russia stessa, che avrebbero dovuto garantire la produzione dei regolari effetti dell’accordo. Il trattato venne violato da Putin con l’invasione della Crimea nel 2014.
L’affondo guerrafondaio di Borrell
Ragionevoli, quindi, sono le obiezioni maturate dal governo nazionale: chi difenderà Kiev da un’eventuale futura invasione quando avremo smilitarizzato? È anche vero, però, che mettere per iscritto un ruolo di garanzia da parte dei Paesi Nato, rischierebbe di obbligare l’intera alleanza ad affiancare militarmente gli ucraini. Ed il rischio che il conflitto possa estendersi a livello mondiale diverrebbe esponenzialmente alto. Gli alleati atlantici, intanto, dichiarano di voler proseguire sulla strada delle sanzioni ai danni di Mosca, in aggiunta al costante sostegno militare all’esercito resistente. Le forti tensioni tra Ue e Russia sono state riaccese anche dalle parole tuonanti dell’Alto rappresentante della politica estera europea, Josep Borrell, il quale ha dichiarato che “normalmente, le guerre si vincono o si perdono in battaglia”. Immediata la risposta di Lavrov: “Le dichiarazioni del capo della politica estera dell’Ue, Josep Borrell, riguardo all’Ucraina cambiano significativamente le regole del gioco”.
A quali regole del gioco allude il ministro degli Esteri russo? Ad un aumento delle offensive nel Donbass oppure all’assunzione di gravi sanzioni nei confronti di asset strategici dei Paesi Ue, gas e petrolio su tutti? Sicuramente, l’uscita di Borrell non solo rischia di trascinare l’Europa all’interno di un vero e proprio campo minato, ma pare riassumere fedelmente anche un sentimento guerrafondaio – minore, ma pur presente – che serpeggia tra le aule istituzionali dell’alleanza atlantica. Lo stesso Joe Biden definì Vladimir Putin “un criminale di guerra”; il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, liquidò l’ex funzionario del KGB con la formula “è un animale”.
La giravolta di Di Maio
Ora, lungi dal sottoscritto assumere funzioni temporanee da Corte Penale Internazionale, sembra però difficile portare al tavolo della diplomazia un Paese, sicuramente aggressore, ma che con queste uscite rischierebbe di diventare ancor più radioattivo rispetto a quanto non lo sia già oggi. Nonostante le parole di Borrell, lo stesso Di Maio, comunque, pare compiere un dietro front rispetto alle posizioni di inizio guerra e cerca di rassicurare Mosca: “L’Italia si opporrà ad interventi militari diretti della Nato”. Una decisione – questa volta lo possiamo dire con fermezza – ragionevole, razionale, il cui contrario rischierebbe solo di aggravare gli esiti del conflitto, nonché le già esasperate condizioni in cui vige la popolazione ucraina.
Le trattative continuano a rimanere congelate, bloccate, in fase di stallo. Lo stesso ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, parla di negoziato, ma il “risultato verrà dal campo di battaglia”. La sensazione è che l’ultimo colpo, tragico e decisivo, dipenda solo dai combattimenti che si scateneranno dalle prossime ore nel Donbass. Solo dopo si potrà parlare di pace e negoziato. Nel frattempo, altri morti, altre violenze, altre stragi. La guerra non si ferma.
Matteo Milanesi, 13 aprile 2022