Altro che cassa integrazione in ritardo, sussidi per i monopattini e “prospettive diacroniche” alla Giuseppe Conte. Eccola qua, la vera potenza di fuoco: si chiama Bce.
Il suo Pepp, cioè il programma di acquisto dei titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona, attivato per far fronte alla crisi da Covid-19, è già passato dai 750 previsti inizialmente, agli attuali 1.300 miliardi di euro. A questi, nella giornata di oggi, l’istituto di Francoforte ne ha aggiunti altri 1.308, con una maxi asta Tltro (il piano di rifinanziamento a lungo termine, inaugurato da Mario Draghi nel 2011) indirizzata alle banche europee. Ad aggiudicarsi la copiosa iniezione di liquidità sono state ben 742 banche: il tasso d’interesse su quei prestiti potrà arrivare fino al -1%, a seconda della quota di fondi che esse destineranno all’economia reale. In sostanza, l’Eurotower sta pagando le banche affinché eroghino liquidità a famiglie e imprese. Non a caso, subito dopo l’asta, il rendimento del Btp decennale è passato dall’1,4% all’1,38%. Se n’è fatta di strada, da quando Christine Lagarde, in piena pandemia, affossò i mercati con una frase sconsiderata: “Non siamo qui per ridurre lo spread”. Il fantasma di Draghi s’è vendicato.
Certo, le carenze strutturali rimangono. Perché è vero che la Bce sta facendo il suo dovere di banca centrale. Ma è vero pure che lo sta facendo in sostanziale violazione delle sua stesse finalità, messe nero su bianco nei trattati. Anche se, vista la recessione in atto, è difficile che la massa monetaria liberata da Francoforte porti l’inflazione sopra il tetto statutario del 2%. Rimane comunque un dato di fatto: se c’è qualcuno che sta salvando l’economia dal tracollo e che è in grado di rimetterla in piedi, quel qualcuno è proprio la Bce. È su di essa che dovremmo fare affidamento, insieme alla nostra impregiudicata capacità di finanziarci sui mercati a tassi tutto sommato gestibili, come hanno mostrato le recenti aste dei titoli di Stato. In questa prospettiva, è valida anche la proposta di Paolo Savona, numero uno della Consob: emettere bond perpetui, che garantiscano una cedola fissa esentasse, per sostenere la ripresa.
L’unica cosa che sicuramente non è valida, è il prestito del Mes. Eppure, a Roma, precisamente in via XX settembre, qualcuno insiste a volercelo propinare. “Attraente”, lo definisce il ministro delle Finanze, Roberto Gualtieri. E forse non ha tutti i torti. Sul piano economico, beninteso, è una fregatura: basti qui ricordare soltanto che, dopo tutti gli annunci sulle condizionalità ridotte, nel programma è rimasto comunque il cosiddetto early warning system, il meccanismo di “allerta precoce” che di fatto mette in sorveglianza rafforzata il Paese che riceve il prestito del Salva Stati. Sul piano politico, però, il Mes è uno strumento ghiottissimo: per il M5s sarebbe come firmare un contratto di cessione dell’anima al demonio, ossia il Pd, che a quel punto avrebbe finito d’inghiottire l’ex movimento di protesta. Addirittura, come riferisce da giorni Repubblica, Giuseppe Conte starebbe mediando su un accordo: Benetton messi all’angolo in Autostrade, in cambio dell’ok pentastellato al Fondo: diabolico, come tutto ciò su cui ricama le sue trame il nostro Churchill.
Se poi le cose si mettessero male elettoralmente, la sorveglianza rafforzata sarebbe un’esiziale ipoteca su un eventuale governo di centrodestra.
Nelle stanze del fondo lussemburghese, intanto, attendono con trepidazione che qualcuno cada nella trappola: il rischio è che ci si accorga che, con una Bce che funziona a pieno regime, il Mes non serve a nulla. E non ha senso tenerlo in piedi – con inevitabile sparizione di annesse poltrone retribuite. In fondo, è questo l’ordine di priorità del Conte bis: tenere senza reddito i disoccupati italiani, ma evitare che a perdere il posto siano gli eurocrati.
Alessandro Rico, 18 giugno 2020