Bohème coi pugni chiusi stile ’68. Veronesi protesta e lo licenziano

Il mastro dirige con una benda sugli occhi per non vedere l’opera ambientata nel ’68 e con Mimì in minigonna

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La protesta bizzarra, quasi situazionista, del Maestro Alberto Veronesi che dirige bendato per non vedere le brutture della Boheme in salsa comunista è tutt’altro che naif e ci propone spiragli di riflessioni. La prima è che nel vortice di una comunicazione manicomiale o vai sopra le righe o nessuno ti ascolta, “e non trova cane che gli abbai”. Così che tutti debbono inventarsi la qualunque per farsi notare, diventare personaggi, o semplicemente far passare un messaggio, una polemica, qualcosa da dire. Per dire qualcosa, qualsiasi cosa, devi far parlare di te.

Veronesi è uomo di cultura e ha trovato un gesto a suo modo colto, semplice ma affilato: difatti l’hanno fatto fuori, la direzione del Festival pucciniano di Torre del Lago, nel Lucchese, lo ha rimosso con un pretesto più ipocrita che volgare, un presunto ritardo nel presentarsi. Già, povero Puccini: ma che gli ha fatto alla sinistra infantilista e integralista? Prima si scagliano contro Beatrice Venezi, posta in fama di fascista senza presupposti specifici, juris et de jure, insomma è così perché lo diciamo noi e basta: e se la prendono con l’Inno a Roma, da ella diretto, che però è del 1918 ed eseguito in prima assoluta un anno dopo: va bene il diciannovismo, ma qui l’ortodossia trinariciuta ha avuto troppa fretta e ha fatto i gattini ideologici ciechi.

È stato giustamente osservato che quando a cantare lo stesso inno fu il prezzemolino pop lirico Bocelli, sotto gli occhi di Gentiloni, andava bene, se lo fa la Venezi diventa una specie di ode mussoliniana a donna Giorgia. Cazzate monumentali, quello che invece si può dire è che, a cercarlo con rigore e onestà, di elementi fondati sul rapporto musica e politica, musica e potere (chi scrive ricorda un formidabile lectio del musicologo Guido Barbieri) se ne trovano da farci dei trattati: non è proprio vero che “la musica non è né di destra né di sinistra”: la musica di per sé no, le note ovviamente no, ma il modo di combinarle, tanto per cominciare, risponde a precise, matematiche regole ed esigenze perché la musica è una forma suprema di comunicazione che come tale si dirige ha un pubblico ma poi anche i suoi interlocutori privilegiati; poi c’è il contesto in cui un brano nasce e si sviluppa, c’è il modo in cui viene rivestito di significati.

Wagner non è nazista, arriva, come tutti sanno, molto prima, ma se c’è una musica che il nazismo poteva colonizzare, è la sua; intere sinfonie sono state composte per squisite ragioni agiografiche del regime sovietico (il Fascismo aveva più quelle marcette un po’ ridicole, ma di soppiatto assorbiva stilemi swing, musica di libertà, che però piaceva parecchio al dittatore Benito); gli Inti Illimani, anche a non conoscerne il fumoso populismo socialista, li identifichi all’impronta con un immaginario da centro sociale, eccetera. Nel caso di Puccini stravolto da sinistra, però, si superano le colonne d’Ercole del grottesco.

Una Bohéme sessantottina, con l’eroina tisica, drogaticcia, in minigonna, ha dell’idiota, punto e basta; già retrodatare la gelida manina dalla Parigi del 1830 a quella comunarda di 60 anni prima sarebbe stato surreale, ma almeno con qualche ambizione culturale, storica; spedirla nel maggio di oltre un secolo dopo ha più che altro del cringe e trasuda odio efferato verso i poveri Puccini, Illica e Giacosa. Cose che solo in questa sinistra globalmente analfabeta possono trovare una logica, sia pure da squilibrati. Veronesi, da direttore incazzoso, ma, soprattutto, hombre vertical, ha scelto di non tacere, di non prestarsi a questo scempio militante. E un po’ perché la lirica, a sua volta, è sempre stata piegata, peggio, distorta a ragioni propagandistiche, e un po’ perché siamo in mezzo a una deriva pagliaccesca che ormai non si frena più.

Qualcosa che evoca e se mai annuncia le recenti bestialità woke dalla moda imperante: dalla Mimi ottocentesca a quella sesssantottina a quella armocromista, è un attimo, anzi un atto. E siccome l’urlo di Fantozzi sulla Corazzata Potemkin che è una cagata pazzesca è un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo, se n’è incaricato il diretto interessato. Senza strepiti, ma in modo icastico. La sinistra, manco a dirlo, s’è incazzata, perché non ha ironia, solo sarcasmo pesante. E, manco a dirlo, ha subito eliminato il dissidente. Avessero fatto la Bohéme in orbace e rodophane (“che erano solo tessuti, né di destra né di sinistra”), probabilmente sarebbe venuto giù il teatro. Quindi vedi come sono i compagni democratici: Puccini preso per mano da Mario Capanna va benone, diretto da Beatrice Venezi è reazionario.

E se un Veronesi sbagliato, non Giovanni, non Sandro, ma Alberto, ha qualcosa da obiettare, sia educatamente epurato. Noi sull’Inno a Roma abbiamo pure le nostre perplessità, ma di altro genere: oggi come oggi, per Roma ci vuole una sinfonia di cornacchie, una carica di cinghiali, un furibondo galop di clandestini stupratori. Altro che Puccini. Altro che bohemienne e inni per niente fatali. E la mascherina, delle volte, verrebbe proprio da tenersela sugli occhi non solo per non vedere più la Mimì proletarienne, ma per non vedere più niente di questo circo di scappati dal manicomio. Cialtroneschi però.

Max Del Papa, 17 luglio 2023

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