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La Cina e gli aiutini che l’Ue non vede

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Il più grande produttore al mondo di apparecchiature telefoniche avrebbe ottenuto incentivi statali per 75 miliardi di dollari. Si tratta di Huawei e gli aiuti, secondo una completa inchiesta del Wall Street Journal, sarebbero arrivati sotto forma diversa. Dal 2013 al 2018, in soli cinque anni, ha ottenuto, secondo i bilanci pubblici, 1,6 miliardi di veri e propri sussidi diretti: diciassette volte quanto abbia incassato il suo diretto competitor, la finlandese Nokia. A ciò si aggiungono 2,5 miliardi di facilitazioni fiscali per investimenti in tecnologia e ancora un paio di miliardi in sconti per l’acquisto di terreni dove impiantare nuovi centri di produzione.

Una miriade di altre facilitazioni e almeno 46 miliardi di presti e mutui, da parte di istituzioni finanziarie cinesi, a tassi non di mercato, e con tassi decisamente più convenienti. Huawei ha smentito irregolarità, minacciando azioni legali. Che la Cina aiuti i suoi campioni nazionali, è comunque cosa nota. Così come utilizzi la leva fiscale per farli crescere in giro per il mondo. Si calcola che grazie, anche a questi incentivi, alcune attrezzature high-tech cinesi possano essere comprate sul mercato con un prezzo all’ingrosso del 30 per cento inferiore ai concorrenti internazionali. Un tempo lo «sconto cinese» si applicava a prodotti a basso valore aggiunto, realizzati dalle fabbriche made in China, e grazie al bassissimo costo del lavoro.

Attraverso questo dumping sociale molte industrie europee sono morte, si pensi al tessile italiano. Ma siamo alla fase due: i salari e i diritti stanno lentamente salendo e dunque riducendo, relativamente, la pressione competitiva del made in China industriale. Lo stesso processo avviene sulla tecnologia: e in questo caso la leva del prezzo basso è agevolata da una fiscalità generosissima, come nel caso Huawei.

Si tratta di una questione economica e commerciale complicatissima. Già dai tempi di Ricardo abbiamo capito che la specializzazione produttiva tra diverse aree del globo è in fondo conveniente. Ma il sottinteso è che ciò avvenga sempre troppi «aiutini»: altrimenti il gioco risulta truccato. Sia chiaro anche all’interno del nostro mondo occidentale abbiamo colossi che rompono gli schemi, talvolta da posizioni dominanti. C’è chi sostiene che Amazon stia distruggendo il commercio di prossimità grazie a politiche di prezzi bassi e in perdita, per polverizzare i concorrenti e poi occuparne il posto. Ci sono fior di economisti che sostengono come l’«economia delle piattaforme» stia compromettendo le imprese tradizionali. E chi non capisce bene perché i nuovi operatori della Silicon Valley traggano così grandi benefici dalla infrastruttura (costosa) messa in piedi dalle società di telecomunicazione e non paghino nulla per usufruirne.

Pensate a Facebook o Airbnb o Netflix: sono dei bei negozi per i quali è necessaria un’autostrada super funzionante e potente per poterci arrivare, il cui pedaggio però è pagato solamente dai clienti e non da questi negozi, che senza autostrada sarebbero introvabili.

Insomma ci sarebbe grandi questioni epocali da discutere. E poi leggi la prima intervista proprio ieri di Ursula von der Leyen su la Repubblica, e ritieni che la baronessa spunti fuori dalla nuova ztl del pensiero ottocentesco. Il futuro, per la nostra Presidente, è il green deal. Per di più, come ha saggiamente scritto l’Economist solo un paio di numeri fa, finanziato per 200 miliardi dai privati. Insomma mentre i cinesi ci invadono di merci tecnologiche sussidiate e continuano a produrre con il carbone e a bassi prezzi quelle tradizionali, mentre la Silicon Valley ha inventato una nuova economia digitale senza confine, con una tassazione liquida, e con piattaforme che distruggono le nostre tradizionali abitudini continentali, nello Ztl di Bruxelles si occupano di Greta. Ma questi devono essere pazzi.

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