L’anno nuovo porterà nella vita degli italiani la famigerata riforma della prescrizione che perfino il Pd, con un sussulto di garantismo, sta tentando di moderare. Nella storia della nostra Repubblica, mai vi era stato un diumvirato di avvocati a tempo pieno con gli incarichi di Premier e di Guardasigilli, recidivamente in due governi consecutivi. Bene ha fatto il dinamico duo a mettersi “in sospensione volontaria per fini istituzionali” dai rispettivi Ordini, anche per evitare, forse, eventuali strali disciplinari. In principio, uno dei due si era addirittura presentato baldanzosamente come “l’Avvocato difensore del popolo italiano”.
Ebbene, entrambi rischiano ora di passare imprescrittibilmente alla storia per aver cassato senza rinvio un baluardo della cultura giuridica sin dai tempi del diritto romano come la prescrizione, derubricandola come un vulnus del sistema. A denunciarlo a gran voce il Consiglio nazionale forense, che peraltro ha sede giurisdizionale proprio nel palazzo del Ministero della Giustizia, le Camere penali, tutti gli ordini territoriali, le associazioni private forensi, parte della magistratura più responsabile e numerosi decani della giustizia, pronti a chiedere un referendum abrogativo, la cui raccolta di firme inizierà a breve. Ma anche illuminati accademici costituzionalisti come Sabino Cassese, “gran ciambellano” di Sergio Mattarella, che considera la modifica normativa sulla prescrizione palesemente incostituzionale, soprattutto in un Paese in cui i processi durano ben oltre la “ragionevole durata” statuita dalla nostra Costituzione, come purtroppo confermato dalle innumerevoli condanne all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ma il Quirinale tace, terrorizzato dall’aprire una crisi che porterebbe a elezioni anticipate e a un nuovo Parlamento che elegga il prossimo Capo dello Stato. I penalisti evidenziano che il procedimento e il processo penale sono già una condanna per chi li subisce ancora in veste di indagato o imputato – senza peraltro nemmeno il contrappeso di una norma che, ad iter in corso, salvaguardi le loro esistenze quotidiane dalle inevitabili ripercussioni – ricordando che i processi possono anche concludersi con le assoluzioni e le indagini con le archiviazioni. Ma il Premier avalla tacitamente la norma voluta dal suo Ministro della giustizia ed iniziale affettuoso sponsor. Con buona pace di Cesare Beccaria per il quale: “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile”.
Il riordino del processo civile, poi, appare miope, dimenticando che nessuna riforma è un pasto gratis perché già l’adeguamento al nuovo in corso di giudizio rappresenta un costo. Forse il coinvolgimento di studiosi seri e autorevoli avrebbe fatto comprendere l’abc, che uno non vale uno, e che una riforma credibile della giustizia richiede anche, e forse soprattutto, l’aumento delle risorse. Ma il nostro Presidente del Consiglio appare distratto, impegnato in un perenne tour per promuovere solo se stesso.
L’altra aberrazione giuridica di queste ultime ore, comunque la si pensi sulla famiglia Benetton, è il tema della revoca delle concessioni autostradali, che ci sta rendendo ridicoli, anche dopo la farsa sullo scudo penale per l’ex Ilva, sulle scene internazionali. La concessione, infatti, è un atto unico per 3.000 km. È stata approvata con legge – e quindi non con un semplice atto amministrativo – e solo con legge può essere modificata. In altri termini, è stata “blindata”, come Conte dovrebbe sapere perfettamente, prima di inseguire la sua stella cometa “manettara”. La concessione autostradale in questione, inoltre, prevede molte clausole vessatorie in danno dello Stato e, anche in caso di colpa grave del concessionario, il rimborso di tutti i costi sostenuti per la manutenzione delle opere, in quanto considerati investimenti pro futuro.