Negli anni ’80, grazie in larga parte a Craxi e all’uscita dagli anni di Piombo, si aprì una stagione di confronto storico relativamente sereno e maturo: tra i massimi esempi, una mostra a Roma sull’economia italiana tra le due guerre diede vita ad un dibattito di altissimo livello che coinvolse De Felice, Massimo Finoia, Sabino Cassese, Valerio Castronovo, Pietro Melograni, Giulio Sapelli, Rosario Romeo e Romano Prodi, allora presidente dell’Iri (ente nato nel 1933). È il 1984, anno in cui Giorgio Almirante si reca al funerale di Berlinguer, rendendo omaggio allo storico rivale politico. Successivamente le parole di Luciano Violante sulle «ragioni dei vinti» e i «ragazzi di Salò» e poi l’incarico di ministro conferito a Mirko Tremaglia sembrano poter definitivamente svelenire il clima e aprire una stagione nuova. Ma la tentazione di scatenare la rodata macchina propagandistica “antifascista”, che distorce la realtà e mette all’angolo l’avversario, è troppo forte e oggi si torna a parlare di vecchie divisioni e accuse surreali.
La destra dall’identità al futuro
L’egemonia culturale progressista (scientificamente raggiunta seguendo la lezione gramsciana) e la timidezza politica del cosiddetto mondo “di destra” hanno contribuito a far maturare una sudditanza psicologica nei confronti del “politicamente corretto”, acuita dalla grancassa dei media, del mondo dell’istruzione, dello spettacolo e dei grandi colossi multinazionali, che remano tutti nella stessa direzione. La difficoltà ad opporsi ai dogmi del “pensiero unico” è storia nota, una parola sbagliata può mettere a repentaglio carriera o lavoro. Eppure di fronte alle continue richieste di professione di antifascismo e abiure del passato che arrivano da personaggi come Tommaso Montanari e chiamano in causa il simbolo stesso di Fratelli d’Italia o il nome di Almirante, la risposta non può essere quella di continue difese o prese di distanza.
Ad ogni concessione, i progressisti alzeranno la posta: in sostanza, Fdi (per quanto abbia al suo interno forti elementi provenienti dalla cultura liberale e cattolica) andrà bene quando sarà diventato come il Pd. Non funziona così. Come ha scritto Storace, «c’è un’altra storia che merita rispetto»: è la storia del Movimento Sociale che partecipa per decenni al gioco parlamentare con dignità; è la storia di leader come Almirante e Rauti; è la storia dell’Istituto Studi Corporativi di Gaetano Rasi, che chiama professori e filosofi come Ugo Spirito ad elaborare proposte di altissimo profilo sui temi sociali e costituzionali, lo stesso Rasi che siederà in parlamento con An e rifiuterà la poltrona di ministro dell’economia offerta da un governo tecnico; è la storia della «destra sociale» di un gentiluomo come Giano Accame, che anticipa le derive della finanza che saranno poi descritte da sociologi come Luciano Gallino; è la storia della «sinistra nazionale» di Ernesto Massi, padre della geopolitica italiana, nel dopoguerra professore e presidente della Società geografica italiana, animato dal sogno di elevare il lavoro al centro dei processi politici sulla scia di Mazzini; è la storia del sindacalismo nazionale della Cisnal. Sono gli anni in cui, sia detto per inciso, nei partiti di governo e nel mondo della cultura ci sono decine di nomi che aderirono entusiasticamente in gioventù al regime mussoliniano: Fanfani, Bocca, Fo, Scalfari, Napolitano, Spadolini, Taviani per citare solo i più noti. Loro, non chi è nato negli anni ’70, ’80 o ’90.
La storia sopra descritta deve essere rispettata, contestualizzata, in parte anche “superata”, ma non rinnegata a seconda dei capricci dei padroni del vapore. Si tratta di una storia, infine, che si innerva di concetti ancora oggi importanti, a partire da quelli di Stato e Partecipazione. Nel contesto della globalizzazione, infatti, l’elaborazione di una strategia nazionale, del ruolo dello Stato in economia, di nuove forme di partecipazione politica e democrazia economica sono elementi ricchi di spunti per provare a dare risposte alle sfide che ci aspettano, in primis le transizioni digitali o energetiche (cavalcate da multinazionali cinesi e americane) con tutto il loro portato di rincari, «bagni di sangue» (Cingolani docet) e licenziamenti. Non solo: per l’Italia è vitale ritrovare un ruolo internazionale e mediterraneo; limitare le delocalizzazioni; rilanciare i borghi e la natalità; difendere le eccellenze (dai prodotti tipici ai “cervelli”); elaborare nuovi modelli sociali e controllare quel «capitalismo della sorveglianza» (definizione della Zuboff) che apre la porta a un vero e proprio stravolgimento antropologico, oltre che a forme di controllo e omologazione raramente viste prima. Ecco, sarebbe ora di essere seri: si stimoli la cultura, il dibattito e si parli di questi temi, invece di evocare furbescamente fantasmi del passato.