di Francesco Carlesi, presidente Istituto “Stato e Partecipazione”
Alla fine degli anni ‘50 il Partito Comunista italiano non se la passava bene. Gli strascichi della repressione sovietica in Ungheria (1956) erano stati pesanti: tanti lavoratori, intellettuali e professori avevano cominciato a mettere in dubbio la bontà del messaggio marxista e del modello comunista davanti alla cruda realtà dei fatti, che raccontava qualcosa di ben lontano dalla democrazia e dall’emancipazione del proletariato. In quello stesso periodo, d’altronde, Togliatti chiedeva ai sovietici di giustiziare Imre Nagy (alfiere della rivolta) dopo le elezioni italiane per non dargli “fastidi” e imbarazzi elettorali.
Per rendere l’idea del furore ideologico che animava le giovani leve del Pci, sono i giorni in cui un giovanissimo Enrico Berlinguer stroncava pubblicamente il sindacalista Di Vittorio che aveva osato mettere in dubbio la (inesistente nei fatti) matrice “fascista” della ribellione di Budapest e Giorgio Napolitano elogiava apertamente i carri armati sovietici. Nel 1960, infine, il Movimento Sociale Italiano sembrava lentamente “annusare” le sfere di governo dopo la fiducia votata al governo del democristiano Tambroni. In questo preciso contesto nacque l’idea di ravvivare un collante che potesse mettere la destra all’angolo, rilanciare il Pci e la coesione di quello che diverrà l’arco costituzionale: l’antifascismo. Nel 1960 le sinistre riescono ad impedire che si svolga il congresso missino di Genova dopo giornate di durissimi scontri in cui la tensione sale alle stelle, con morti e feriti sulle strade. L’obiettivo viene raggiunto: da allora fino agli anni ’90 il Msi rimarrà un partito di “esuli in Patria” e l’antifascismo conoscerà una rinnovata fortuna che sfocerà nelle asprezze degli anni di Piombo.
Antifascismo, l’arma della sinistra
Sembra incredibile, ma 60 anni dopo è ancora l’antifascismo l’arma della sinistra per “disumanizzare” ed estromettere fuori dall’arco repubblicano (come ha testualmente detto il vicesegretario Pd Provenzano) chiunque non si omologhi al “pensiero unico” politicamente corretto. Oggi Fratelli d’Italia, in passato Craxi, Berlusconi o Fini. Si tratta di un pensiero che se negli anni ’50 aveva ancora radici nel mondo del lavoro, oggi si nutre quasi solamente di battaglie gender e di esaltazione del globalismo, del modello democratico americano, persino del banchiere Mario Draghi, con poco riguardo per le classi più umili, spesso descritte sbrigativamente come «ignoranti che votano Salvini o Meloni». Non stupisce dunque vedere la Cgil organizzare una manifestazione antifascista nel preciso momento in cui grandi aziende portano a termine i licenziamenti di centinaia di operai. Non stupisce vedere un mondo sindacale e una schiera di intellettuali progressisti che applaude gli idranti che spazzano via i portuali di Trieste mentre concentra strumentalmente la sua attenzione su un inesistente “pericolo fascista” («realistico come un’astronave in un buco nero», ha detto Massimo Cacciari), agitato dai grandi media per distogliere l’attenzione dai problemi che affliggono e affliggeranno l’Italia.
E pensare che Pasolini già nel lontano 1974 definiva l’antifascismo «presuntuoso e in malafede perché finge di dar battaglia a un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo». A meno che qualcuno pensi realmente che la decina di persone arrestate in occasione del vergognoso assalto alla sede Cgil (effettuato comunque in circostanze ambigue che la Lamorgese non ha contribuito a chiarire adeguatamente) siano un reale pericolo per la tenuta sociale e politica della Nazione. Una tenuta che mesi di dpcm, forzature della Costituzione, informazione a senso unico fino all’insediamento per «volontà extracostituzionale» (come ha testualmente scritto Galli della Loggia sul «Corriere della Serra») di Draghi non ha preoccupato nessun pensatore mainstream.
“Fascismo” come squalifica degli avversari
Uno studioso accorto come Emilio Gentile, nel volume Chi è Fascista, aveva ammonito sull’assurdità, sul piano storico, culturale e politico, del continuo richiamo al fascismo per squalificare gli avversari. Inutilmente. Eppure studiosi del calibro di De Felice, Gregor e Sternhell, la cui lettura resta vitale per comprendere gli eventi di allora, avevano da lungo tempo restituito al ventennio la sua complessità, inquadrando tutte le luci e le ombre di un periodo consegnato alla storia. Il dualismo relativo a ciò che si può dire a livello privato e a livello pubblico su quel periodo, come ha puntualmente descritto Dino Cofrancesco, rimane una grande anomalia dei nostri tempi, che ci riporta indietro di 40 anni.
Negli anni ’80, grazie in larga parte a Craxi e all’uscita dagli anni di Piombo, si aprì una stagione di confronto storico relativamente sereno e maturo: tra i massimi esempi, una mostra a Roma sull’economia italiana tra le due guerre diede vita ad un dibattito di altissimo livello che coinvolse De Felice, Massimo Finoia, Sabino Cassese, Valerio Castronovo, Pietro Melograni, Giulio Sapelli, Rosario Romeo e Romano Prodi, allora presidente dell’Iri (ente nato nel 1933). È il 1984, anno in cui Giorgio Almirante si reca al funerale di Berlinguer, rendendo omaggio allo storico rivale politico. Successivamente le parole di Luciano Violante sulle «ragioni dei vinti» e i «ragazzi di Salò» e poi l’incarico di ministro conferito a Mirko Tremaglia sembrano poter definitivamente svelenire il clima e aprire una stagione nuova. Ma la tentazione di scatenare la rodata macchina propagandistica “antifascista”, che distorce la realtà e mette all’angolo l’avversario, è troppo forte e oggi si torna a parlare di vecchie divisioni e accuse surreali.
La destra dall’identità al futuro
L’egemonia culturale progressista (scientificamente raggiunta seguendo la lezione gramsciana) e la timidezza politica del cosiddetto mondo “di destra” hanno contribuito a far maturare una sudditanza psicologica nei confronti del “politicamente corretto”, acuita dalla grancassa dei media, del mondo dell’istruzione, dello spettacolo e dei grandi colossi multinazionali, che remano tutti nella stessa direzione. La difficoltà ad opporsi ai dogmi del “pensiero unico” è storia nota, una parola sbagliata può mettere a repentaglio carriera o lavoro. Eppure di fronte alle continue richieste di professione di antifascismo e abiure del passato che arrivano da personaggi come Tommaso Montanari e chiamano in causa il simbolo stesso di Fratelli d’Italia o il nome di Almirante, la risposta non può essere quella di continue difese o prese di distanza.
Ad ogni concessione, i progressisti alzeranno la posta: in sostanza, Fdi (per quanto abbia al suo interno forti elementi provenienti dalla cultura liberale e cattolica) andrà bene quando sarà diventato come il Pd. Non funziona così. Come ha scritto Storace, «c’è un’altra storia che merita rispetto»: è la storia del Movimento Sociale che partecipa per decenni al gioco parlamentare con dignità; è la storia di leader come Almirante e Rauti; è la storia dell’Istituto Studi Corporativi di Gaetano Rasi, che chiama professori e filosofi come Ugo Spirito ad elaborare proposte di altissimo profilo sui temi sociali e costituzionali, lo stesso Rasi che siederà in parlamento con An e rifiuterà la poltrona di ministro dell’economia offerta da un governo tecnico; è la storia della «destra sociale» di un gentiluomo come Giano Accame, che anticipa le derive della finanza che saranno poi descritte da sociologi come Luciano Gallino; è la storia della «sinistra nazionale» di Ernesto Massi, padre della geopolitica italiana, nel dopoguerra professore e presidente della Società geografica italiana, animato dal sogno di elevare il lavoro al centro dei processi politici sulla scia di Mazzini; è la storia del sindacalismo nazionale della Cisnal. Sono gli anni in cui, sia detto per inciso, nei partiti di governo e nel mondo della cultura ci sono decine di nomi che aderirono entusiasticamente in gioventù al regime mussoliniano: Fanfani, Bocca, Fo, Scalfari, Napolitano, Spadolini, Taviani per citare solo i più noti. Loro, non chi è nato negli anni ’70, ’80 o ’90.
La storia sopra descritta deve essere rispettata, contestualizzata, in parte anche “superata”, ma non rinnegata a seconda dei capricci dei padroni del vapore. Si tratta di una storia, infine, che si innerva di concetti ancora oggi importanti, a partire da quelli di Stato e Partecipazione. Nel contesto della globalizzazione, infatti, l’elaborazione di una strategia nazionale, del ruolo dello Stato in economia, di nuove forme di partecipazione politica e democrazia economica sono elementi ricchi di spunti per provare a dare risposte alle sfide che ci aspettano, in primis le transizioni digitali o energetiche (cavalcate da multinazionali cinesi e americane) con tutto il loro portato di rincari, «bagni di sangue» (Cingolani docet) e licenziamenti. Non solo: per l’Italia è vitale ritrovare un ruolo internazionale e mediterraneo; limitare le delocalizzazioni; rilanciare i borghi e la natalità; difendere le eccellenze (dai prodotti tipici ai “cervelli”); elaborare nuovi modelli sociali e controllare quel «capitalismo della sorveglianza» (definizione della Zuboff) che apre la porta a un vero e proprio stravolgimento antropologico, oltre che a forme di controllo e omologazione raramente viste prima. Ecco, sarebbe ora di essere seri: si stimoli la cultura, il dibattito e si parli di questi temi, invece di evocare furbescamente fantasmi del passato.