Di seguito l’introduzione al quinto capitolo dell’ultimo libro di Nicola Porro “La disuguaglianza fa bene, manuale di sopravvivenza per un liberista”, pubblicato oggi dal Giornale. Da venerdì 5 maggio, infatti, sarà possibile acquistare il volume in edicola a 9,50 euro oltre al prezzo del quotidiano
Ci sono pochi preconcetti così diffusi e indiscutibili come quelli che riguardano la disuguaglianza. Essa starebbe clamorosamente aumentando e, ça va sans dire, sarebbe la causa dei grandi mali del secolo.
Non c’è giornalista, opinionista, commentatore e twittarolo (essere umano che grazie alla piattaforma digitale chiamata Twitter pretende di avere un’opinione su tutto) che non tiri fuori, a un certo punto, la vicenda del mondo diseguale.
Parafrasando Ricossa: l’idiozia della disuguaglianza è stata ripetuta abbastanza spesso da abbastanza economisti, per essere ormai diventata un dogma. Da salotto. Ma pur sempre un dogma. Per fortuna alcuni libri che ci facciano pensare diversamente esistono e li abbiamo scovati con il lumicino.
In questo libro cercheremo di dimostrare come la favola della disuguaglianza in aumento ce la raccontano da millenni (già Luigi Einaudi diceva che si trattava di una «divulgatissima idea» anche se del tutto sbagliata): e in genere a farlo sono i privilegiati che da una parte si battono il petto per combatterla, dall’altra proprio grazie a questa battaglia perpetrano i loro vantaggi.
Ma cercheremo anche di far capire come la disuguaglianza in sé non sia un problema economico, sociale e tanto meno filosofico. E ancora come gli strumenti per contrastarla siano spesso peggiori della, presunta, situazione critica che dobbiamo affrontare. In questo senso la disuguaglianza fa bene.
L’ultimo profeta della bontà in terra si chiama Thomas Piketty. L’autore del best seller del secolo, Il capitale nel XXI secolo, o nell’originale in francese Le capital au XXIe siècle. Un libro grazie al quale il patrimonio e la notorietà del Nostro non hanno eguali tra i suoi simili.
Proviamo a partire dalla coda, per poi arrivare alla testa. Come ben sappiamo non è importante ciò che è davvero reale, ma ciò che ci piace che lo sia. Insomma la nostra invidia ci porta sempre a pensare che il nostro vicino sia ingiustamente più ricco, più gratificato, e dunque abbia più cose rispetto a quelle che meriterebbe. Ci piace dire che la disuguaglianza esiste, perché ci piace dire che essa non è giusta.
Se fosse in qualche modo giustificata, dovremmo discuterne. Ma se già diamo per acquisito che il denaro sia lo sterco del demonio e che dietro a ogni successo o patrimonio ci sia un grande furto, il gioco è fatto. Prima certifichiamo l’esistenza della disuguaglianza e poi ci compiacciamo del fatto che essa sia figlia di un’usurpazione.
Il passaggio successivo è dare una dimensione globale al fenomeno: forse per farci sentire meno meschini, o banalmente meno invidiosi del nostro vicino di casa, abbiamo via via sostenuto con il medesimo meccanismo intellettuale l’esistenza di un’insopportabile disuguaglianza planetaria. Anche in questi casi con il senso di colpa connesso.
Il Sud del mondo è meno ricco del Nord, anche perché il secondo l’ha sfruttato per secoli. Con l’avvento della globalizzazione, con lo spostamento dell’asse dello sviluppo dall’Occidente all’Oriente, dall’Europa all’Asia, la «disuguaglianza colonialista» ha perso un po’ di appeal. Le battaglie degli anni Settanta contro la fame nel mondo non sono minimamente paragonabili a quella per la tutela del lavoro dei produttori cinesi di iPhone o di quelli vietnamiti di Polo.
Nel nuovo millennio la disuguaglianza non è più vissuta in termini di fame e di sete, ma assume sfumature più moderne: sanità, istruzione, arretramento digitale. Un bel passo in avanti, non c’è che dire. Siamo forse ugualmente diseguali rispetto al passato, ma una cosa è esserlo sulla quantità di grano o riso che ingeriamo, altra cosa è esserlo sulla quantità di bytes che riusciamo a procurarci.
Ebbene, la disuguaglianza è aumentata o no? Piketty scrive più di 900 pagine per dirci che viviamo nel periodo più diseguale del mondo. E provate a contestarlo. Ormai l’idea è passata. Nonostante Matthew Rognlie, un giovane laureato del Mit, abbia sbugiardato uno degli assunti di Piketty e il Financial Times abbia sorpreso il grande economista a immettere dei dati sbagliati proprio in quelle tabelle Excel che dimostrerebbero l’aumento della disuguaglianza. Scaramucce tra economisti.
Resta il fatto che ormai tutti hanno la sensazione di vivere nel mondo delle disuguaglianze. Grazie al cielo, pensa un liberale: pensate che orribile sarebbe la sensazione contraria. Come mi ha suggerito il costituzionalista Michele Ainis, quel che conta è l’uguaglianza delle speranze.
Un’ultima considerazione bisogna riservarla agli stessi che sono così ostili alla diseguale distribuzione del reddito, ma sono anche i primi a essere comprensivi delle differenze di genere, razza, sesso e religione. Anzi queste ultime sono disuguaglianze che debbono essere con forza protette.
È necessaria una grammatica di genere, bisogna rompere la nostra tradizione pubblica e storica per rispettare le nuove religioni (quella islamica) e le loro differenti tradizioni e costumi. Il presidente degli Stati Uniti, Obama, ha lanciato una campagna in grande stile per il «Terzo Bagno», sostenendo che gli studenti delle scuole americane hanno il diritto di scegliere il gabinetto in base alla loro identità di genere e non al sesso anatomico.
Non bastano quelli che un tempo i maschilisti omofobi definivano gli «attributi» a renderci uguali. In questi campi le disuguaglianze fanno bene. Ci vogliono tutti uguali economicamente, ma devono essere protette, anzi incentivate, tutte le altre disuguaglianze.
Il borghese, l’eroe di Ricossa, sente poco l’invidia «perché riconosce a tutti il suo stesso obiettivo di eccellere e non vuole ricevere senza dare, non vuole dare senza ricevere. Egli scambia». Ma ha anche un certo rispetto per la sua storia e la sua tradizione.
Nicola Porro, Il Giornale 4 maggio 2017