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La divisione “Acqui”

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“Onore ai caduti!” grida forte il comandante del picchetto.

Si rinnova la memoria e vedo mio padre dritto con la mano tesa alla visiera.

Sotto il sole greco, da Lassi ad Argostoli, in un percorso di un’ora circa, si arriva davanti a una fossa in cui i tedeschi ammassarono i corpi dei soldati della divisione Acqui e poi, dopo la cappelletta di S.Barbara, sulla destra, il monumeto ufficiale. Sventolano coralmente le bandiere al di sopra del dolore.

Nel 1943, a Cefalonia e poi a Corfù, muoiono migliaia di militari italiani, di cui almeno 5155 fucilati dai nazisti. Un eccidio che non trova spiegazione alcuna se non nella follia mortifera della guerra. Soldati semplici, ufficiali, minuscoli ingranaggi nella grande storia della II Guerra Mondiale che, dopo l’armistizio dell’8 settembre, vengono scardinati ancora, proprio mentre stanno accarezzando i loro desideri semplici di ritorno a casa e di una quotidianità pacifica.

Il 14 settembre il generale Antonio Gandin si risolve in una sofferta decisione insieme ai suoi soldati, 11.500 “figli di mamma” come lui; tre sono le possibilità: con i tedeschi – contro i tedeschi – cedere le armi.

I nostri scelgono di combattere, ma il territorio greco è brullo, non ci sono ripari e gli Stuka volano bassi, in picchiata e sparano senza tregua.

Mercoledì 22 settembre gli italiani firmano la resa e la Wehrmacht, dopo averli radunati, esegue il comando firmato dal Fürer in persona per i soldati di stanza a Cefalonia: “Non fare prigionieri tra gli italiani”. Si consumerà un vero e proprio massacro, forse la più grande eliminazione di massa di prigionieri di guerra della II Guerra Mondiale.

Angelo Emilio, caporal maggiore del III battaglione del 317° Fanteria della Divisione Acqui di stanza a Cefalonia, mentre ripercorre con lo sguardo le lettere di don Romualdo Formato, descrive così: “Giovani condannati a morte ammucchiati in uno spiazzale in attesa del proprio turno, mentre il rumore degli spari che accasciavano a terra i compagni echeggiava nelle orecchie. Il pensiero dei propri cari che non avrebbero mai più rivisto, la paura della morte e del dolore che si poteva provare, eppure il coraggio e la dignità di andare incontro a quella morte a testa alta perché Dio non li avrebbe abbandonati”.

Un altro testimone, Amos Pampaloni, il 21 settembre, cammina sconfitto, ma ancora tranquillo, accanto al capitano austriaco, si scuote dall’illusione solo quando il suo sottocomandante, Tenente Tognato, uomo molto religioso che conosce un po’ il tedesco, grida: “Ragazzi, recitate tutti un atto di dolore!”

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