La domanda inquietante sull’attacco dell’Iran

Medio Oriente sull’orlo del burrone. Israele ora deve decidere se rispondere o meno. Ma c’è un punto da chiarire

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Il Medio Oriente sembra oggi uno di quei reel cinesi su Tik Tok nei quali pullman e camion si muovono e si incrociano su strade ai bordi di burroni, con maestria e incoscienza. Le parole più chiare le ha scritte questa mattina l’ambasciatore iraniano Saeid Iravani alla presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che si riunirà stasera alle 22 ora italiana: “La questione può considerarsi chiusa cosi’, ma se il regime israeliano commetterà un nuovo errore la risposta sarà molto più dura”.

L’Iran si è vendicato per l’attacco a Damasco in cui persero la vita sette alti suoi ufficiali, e per la prima volta si è tolto i guanti, nel conflitto strisciante che dal 1979 lo oppone a Israele, attaccando in prima persona senza ricorrere ai suoi alleati delle milizie irachene, libanesi, siriane e yemenite. E adesso tocca ad Israele: rispondere o meno? Una persona poco influente in questo genere di questioni come il ministro della Cultura israeliano Miki Zohar si è lasciato sfuggire un pensiero tentatore: “L’attacco dell’Iran ci fornisce legittimazione internazionale a una risposta più dura che mai”, e il riferimento alle basi dell’arma nucleare fantasma di Teheran è evidente.

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Dobbiamo immaginare in queste ore la Casa bianca impegnata a convincere Israele che fermare il 99% dei droni e dei missili è stata una vittoria, e la si può portare a casa, risparmiando a Biden l’inciampo di un conflitto che si allarga in piena campagna elettorale. L’Iran ha fatto la voce grossa, ha certamente scaldato i cuori della piazza araba, e messo in imbarazzo tutta la regione: la Giordania, i cui caccia si sono levati in volo per abbattere i droni, l’Egitto che si dice preoccupato ma non condanna apertamente Teheran, l’Arabia Saudita, che tace.

Battendosi i pugni sul petto come un gorilla aggressivo, l’Iran si è appuntato la medaglia di nemico n. 1 di Israele, di capofila di quel “Palestina dal fiume al mare” che è il coro della piazza araba, e qualche volta anche di quella occidentale, lasciando a emirati e monarchie e regimi sunniti il ruolo ingrato di collaborazionisti e indegni custodi dei luoghi sacri. Se lo abbia osato perché già in possesso dell’arma nucleare è una domanda inquietante. Ma quello che è avvenuto è già un lampo atomico, che sbianca tutto quello che c’era prima: i 34.000 morti di Gaza, il dissenso contro Netanyahu, i boicottaggi universitari, la difesa comune europea, il dibattito sul sionismo, gli ostaggi e i negoziati.

Israele dovrebbe accontentarsi, dice Biden. Se andrà cosi, si accontenterà anche l’Iran, che non può non tenere in conto le parole prudentissime della Cina, quelle prudenti della Russia. Il vecchio stato canaglia ha raggiunto uno status di potenza regionale di cui essere fiero, non è più un convitato di pietra. Se riesce a mostrarsi responsabile, l’opera è completa. La sua debolezza, piuttosto, è interna, dove metà dei cittadini spera in una guerra contro Israele solo come occasione per veder crollare la teocrazia.

Il resto è il solito bilancio: petrolio e oro che crescono, file ai distributori di benzina iraniani e nei market israeliani, e una bambina di sette anni gravemente ferita nel Negev. Era beduina, e cresceva nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, sull’orlo del burrone.

Toni Capuozzo, 14 aprile 2024

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