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La F1 pro Floyd va a correre nella patria delle discriminazioni

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La scorsa settimana è stato scelto per il calendario di Formula 1 del 2021 un nuovo circuito: è stato deciso che si correrà il prossimo novembre la penultima gara a Jeddah, in Arabia Saudita.

La notizia tuttavia non è stata per niente accolta bene dagli amanti della Formula 1 (io vi sfido ad andare sotto il post dell’annuncio (https://www.youtube.com/post/UgxngOtnad9J4dECzQp4AaABCO) e a trovare un singolo commento positivo) e i motivi sono principalmente due:

1. Si tratta dell’ennesimo circuito cittadino. Questo non piace ai tifosi perché equivarrebbe ad aggiungere un altro circuito che avrebbe ben poco da offrire in termini di spettacolo, garantendoci invece gare noiose e prive di sorpassi, come ben ci testimoniano ogni anno il Gran premio di Monaco e di Singapore, e anche perché equivarrebbe ad un ulteriore abbassamento di qualità dei circuiti del calendario: quest’anno infatti i tifosi si sono parecchio divertiti vedendo le macchine sfrecciare in tracciati unici con curve mozzafiato e imprevedibili come quelle del Mugello, del Nurburing, di Imola, di Portimao, di Istanbul e ciò fa quindi venire già al pubblico nostalgia della attuale stagione, ormai alla conclusione, non solo perché questi fantastici circuiti non si rivedranno più l’anno prossimo, ma anche perché questi verranno rimpiazzati da circuiti di qualità indubbiamente inferiore, come appunto quello d’Arabia, completamente piatti e con solo curve spigolose.

2. Il secondo motivo è a mio modo di vedere molto più grave ed è quello che mi ha spinto a scrivere questo articolo. Il Gran Premio si terrà in uno dei paesi con la più alta discriminazione che esista, un paese in cui è illegale esprimere liberamente il proprio culto religioso, in cui fino a poco tempo fa era vietato alle donne di guidare, in cui sempre le donne devono ancora vivere obbligatoriamente sotto la tutela di un parente maschio e in cui ancora ad oggi esistono le pene corporali come la fustigazione o l’amputazione degli arti. Ma cosa c’è di tanto grave nel correre in questo paese? Ve lo spiego subito.

Quest’anno la Formula 1 ha deciso di inaugurare la stagione chiedendo di far inchinare i piloti in ricordo di George Floyd, vittima della violenza di un poliziotto e nuovo simbolo della lotta al razzismo, e ha sempre deciso di lanciare alcuni slogan che invitino alla tolleranza e al rispetto delle diversità come “We race as one” cioè “noi gareggiamo come se fossimo uno soltanto” oppure “End racism” cioè “Fine al razzismo” e di conseguenza anche alcuni team hanno deciso di seguire l’esempio e hanno decorato le loro macchine con qualche arcobaleno che simboleggiasse l’unità, addirittura la Mercedes ha deciso di cambiare il colore della monoposto da argento a nero come segno di solidarietà verso le persone di colore.

Hamilton è stato quello che più fra tutti ha deciso di prodigarsi per questa causa, dando sempre il suo completo sostegno a quelli che protestavano in America, ed è pure guinto a commentare che “in FIA non si fa abbastanza per combattere il razzismo” e “quelli della Ferrari dovrebbero vergognarsi a non essersi inginocchiati per George Floyd”. E adesso? Adesso che si va a correre in uno dei paesi più razzisti e discriminatori al mondo tu, Hamilton, non dici più niente? E i vari slogan, gli arcobaleni? Non preoccupatevi, signori, quelli credo che molto probabilmente continueranno a veleggiare in ogni gara, anche là in Arabia Saudita, giusto perché quelli della FIA si tengano pulita l’immagine, tanto ormai i soldi per inserire un nuovo circuito li hanno già ricevuti. Tutto il resto, eccezion fatta per le gare, è solo un teatrino.

Matteo Semino, 17 novembre 2020