“Cari ristoratori, chiudete pure la vostra attività e cambiate modello di business”. È questo il consiglio, da economista della domenica o dilettante allo sbaraglio (fate voi), che ci ha dato dagli schermi televisivi la sottosegretaria grillina all’Economia, Laura Castelli, transitata dal primo al secondo governo Conte pur non avendo dato particolari prove di sé nel dicastero un tempo prestigioso di via Venti Settembre. Casomai, aggiungo io temendo di non andare troppo lontano dalle idee della viceministro: “mettetevi a noleggiare monopattini!”
In verita, la nostra si era già distinta in altre di queste sue uscite da “macroeconomista”, come lei stessa le ha chiamate. Ad esempio, quando dette lezioni di scienza economica su mutui e spread a Pier Carlo Padoan, che sarà pure un postmarxista antikeynesiano ma qualche competenza in materia più della Castelli a occhio dovrebbe averla. Oppure, allorché, più recentemente, si è messa a discettare di “debiti a tasso zero e perpetui” (sic!). Ora, al Tg2Post la Castelli ha detto, con un certo compiacimento, che il coronavirus ha cambiato il modo di vivere delle persone, e quindi la domanda e l’offerta, e che di conseguenza bisogna muoversi sui nuovi business e premiare gli imprenditori creativi. Ora, a parte che fa un certo effetto sentir banalizzare in questo modo la dottrina schumpeteriana della “distruzione creatrice”, che non è certo qualcosa che si realizza in tempi così rapidi e solo per un’emergenza che sarà in ogni caso momentanea o transitoria, la cosa che più stupisce è tutto quel che, seppur solo orecchiato, il breve profferire della pentastellata presuppone o sottintende: voglio dire una filosofia o un modello di vita a dir poco inquietante.
Prima di tutto, la creatività non è certo qualcosa di avulso dalla cucina, e anche dall’imprenditoria del cosiddetto “food”, come proprio molte storie italiane di successo dimostrano. In secondo luogo, ciò fa risaltare un vero e proprio sentimento antinazionale: l’indifferenza per quelli che sono i punti forti del “made in Italy” e le nostre “ricchezze naturali”, fra cui la qualità del cibo che arriva sulle nostre tavole e della ristorazione sono sicuramente in prima fila. Senza dimenticare che l’indotto dell’industria alimentare e della ristorazione è così ampio che impiega, ad ogni livello, almeno due milioni di italiani. C’è poi un motivo culturale profondo da non sottovalutare: mangiare in genere, e sedersi alla tavola di un ristorante in particolare, è un momento di civiltà e convivialità che non si riduce certo al semplice cibarsi come esigenza vitale (che può essere un domani e forse già oggi sostituito da pilloline ingurgitabili o flebo alimentari). È a tavola che si stringono alleanze e relazioni, ed è a tavola che si esplica in una parola quella civilizzazione liberale che è propria dell’Occidente in genere e del bacino del Mediterraneo, come culla di ogni civiltà, in particolare.
Il mondo virtuale, sostenibile, verde e digitale, sobrio e decrescista, che si ha in mente, e che si vorrebbe imporre o facilitare per “decreto” o per “bonus fiscali” (e già solo questo è indice di scarsa o nulla cultura d’impresa) è un mondo ove tutto è ridotto al minimo e a livellato al ribasso, compreso direi l’uso delle sinapsi del cervello che sicuramente non è riducibile ad un algoritmo. Una sola soddisfazione: chi scrive ha ricominciato a frequentare i ristoranti da qualche settimana e li ha trovati pieni e gioiosi, come e più di prima, tutto il contrario dell’universo lugubre e triste che qualcuno vuole prospettarci. Ne deduce che per fortuna gli italiani hanno molto più buon senso di coloro da cui sono rappresentati e hanno già risposto coi fatti a chi parla a vanvera.
Corrado Ocone, 19 luglio 2020