È di tutta evidenza che questa armata Brancaleone che regge il governo manettaro di Giuseppe Conte non arriverà a fine legislatura. Il primo dei tre, tra Zingaretti, Di Maio e Renzi, che staccherà la spina sarà quello che perderà di meno perché potrà rivendicare la fine di un esecutivo dannoso per l’economia e ininfluente in politica estera. Per Mattarella, a quel punto, l’unica strada percorribile sarebbe riaprire una stagione di democrazia reale con le elezioni anticipate. Certo non ha più alcuna voglia di gettare il Paese in nuovi sconclusionati esperimenti colorati. Mollare per primo potrebbe essere molto utile per Zingaretti perché eviterebbe con ogni probabilità la sconfitta in Emilia e via via nelle altre regioni, impedendo ai Franceschini e Orlando di turno di linciarlo, farebbe lui le liste e limiterebbe soprattutto i danni di una possibile crescita verso il centro del partito di Renzi (Carlo Calenda non pervenuto, neppure nei sondaggi).
Ma anche Di Maio ne gioverebbe perché costringerebbe i suoi a non disarcionarlo come stanno ormai cercando di fare giorno dopo giorno. Renzi, infine, potrebbe giocarsi la carta di aver tentato una mossa disperata con il Conte bis per evitare il ciclone Salvini ma di aver capito, responsabilmente, che l’esperimento è fallito per la via giustizialista che si stava prendendo e che l’unica prospettiva è quella di comprarsi Forza Italia. Ci potrebbe essere anche un altro valido motivo per cui i tre sbrindellati cavalieri dell’armata devono fare presto. Se non verranno trovate le firme necessarie per il quesito davanti alla Corte Costituzionale, il 12 gennaio la legge che dimezza i parlamentari da 945 a 600 entrerà in vigore. E allora sarebbe meglio giocare d’anticipo ed andare a votare con i vecchi numeri. Inoltre, il trio sa perfettamente che sono in arrivo delle novità esplosive da Washington sul Russiagate che possono travolgere l’unica “coppia di fatto” che regge, quella tra “Giuseppi” e il suo sodale direttore del Dis Gennaro Vecchione.
Altro inciampo viene anche dal pasticcio sulla cosiddetta riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes), nato nel luglio 2012, in piena crisi, dal vecchio Fondo Salva Stati per prestare soccorso finanziario ai Paesi dell’Eurozona che ne avessero bisogno. Al Mef, dove si pavoneggia il ministro Roberto Gualtieri, che sa più di storia che di economia e, come dicono in Banca d’Italia, non conosce neppure la differenza tra blocco dell’aumento dell’Iva e riduzione della pressione fiscale, domina la paura: “Se non firmiamo la riforma a dicembre siamo tutti morti. L’Europa ritira l’appoggio e la benevolenza verso il Conte bis ed è finita”. I resoconti della notte di giugno 2019 in cui il Presidente del Consiglio, a detta di alcuni, avrebbe perfezionato lo scambio per la sua sopravvivenza sono tenuti in cassaforte a Palazzo Chigi, con un codice di apertura che solo Conte conosce. Lì c’è la prova di come sia andata veramente la trattativa.