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La leggenda metropolitana del lockdown

I media fanno intendere che il governo ha protetto la nostra salute. Ma non è così

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Una mia regola aurea è che tutto è possibile eccetto ciò che è logicamente impossibile. Una legge della logica è quella della contro-inversa: se A implica B, allora non-B implica non-A. Mancanza di lockdown implica che si hanno più morti? Allora, a parità di condizioni iniziali, avere meno morti implica che s’è fatto il lockdown. Il caso vuole che al giorno 8 marzo le condizioni iniziali di Italia e di Sud Corea fossero le stesse: entrambi i Paesi registravano 7300 infetti. Orbene, al 4 di maggio l’Italia ne registra 212 mila e piange 29 mila morti, la Sud Corea registra 11 mila infetti e piange 250 morti. Ma in Sud Corea non c’è stato il lockdown che abbiamo fatto noi. Per la regola della contro-inversa, non avessimo fatto il lockdown, non avremmo avuto né più casi né più morti.

Massimamente grazie a mezzi di comunicazione che ricordano quelli cinesi, serpeggia una leggenda metropolitana: è vero che le misure del governo hanno dato un colpo mortale all’economia, ma almeno ci hanno salvato la vita e protetto la salute. Se fosse così, dovremmo essere felici, che quando c’è la salute c’è tutto. Ma non è così. È, quella, appunto, una leggenda metropolitana. Di questo è necessario esserne consapevoli, noi e il governo: noi perché si impari a non dare la fiducia agli incompetenti incapaci, e il governo – qualunque governo ­– perché non commetta gli stessi errori. Alcuni dei quali sono imperdonabili.

Condizione necessaria affinché, in assenza di vaccini, siano efficaci misure di contenimento di un virus pandemico, è la velocità e determinazione nell’implementare le misure stesse. Qualunque fosse stata la strategia scelta, il fattore cruciale era la velocità d’azione. Il primo caso diagnosticato d’infezione avvenne l’8 di dicembre in Cina. Il 4 febbraio, quando avevano 15 casi e zero decessi, i sudcoreani chiudevano il Paese agli arrivi dalla Cina. Lo stesso 4 febbraio il sindaco di Firenze, con velleitario pidiota antirazzismo, lanciava l’hashtag #abbracciauncinese (nessun magistrato l’ha toccato, naturalmente, ma questa è un’altra storia).

In perfetta sintonia col pidiota, Conte attendeva il 9 marzo, quando gli infetti registrati erano già 10 mila e 600 i decessi, per attuare il lockdown. Brillante per incapacità, s’è adagiato sul parere dei cosiddetti esperti. I quali – lo sa anche un boy-scout – sono il modo più sicuro per rovinarsi (i cavalli il più veloce e le donne il più piacevole). Una qualunque Giulia Grillo avrebbe saputo discernere i contraddittori pareri di teste d’uovo rivelatesi incapaci di riconoscere la natura pandemica del virus. Cosa non impossibile, visto che i loro colleghi cinesi, sudcoreani, giapponesi, vietnamiti, l’avevano subito capito.

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