Intelligence e monarchia, realtà e bufale attorno a Giorgio Napolitano. Scomparso a Roma a 98 anni, fu il primo comunista a diventare ministro dell’Interno, presidente della Camera e, per due volte, presidente della Repubblica, inaugurando una discutibile tradizione. Quando poi, a inizio 2015, si dimise, nel suo quartiere, a piazza Santa Maria dei Monti, il macellaio Pietro Stecchiotti gli organizzò una solenne festa di ben tornato a casa, con il Colosseo disegnato sulla torta.
Tuttavia, per capire meglio l’incredibile cursus honorum del comunista preferito dal centenario Henry Kissinger, bisogna partire da Giulio Andreotti. Nel 1978, il Divo lo aiutò, quasi facendogli da garante, nel suo primo viaggio in Usa, fino ad allora preclusi ai dirigenti del Pci, per alcune conferenze nelle maggiori università statunitensi. Napolitano rimase sempre grato ad Andreotti per questa “introduction”, tanto da scrivergli una lettera il 9 maggio 2006 – conservata nell’Archivio Andreotti – il giorno prima della sua salita al Colle, nella quale si legge: «Non dimentico come ti adoperasti per il buon esito di quella mia prima missione negli Stati Uniti: venni a chiederti consiglio nel tuo studio a Palazzo Chigi, mi assicurasti il sostegno della nostra ambasciata e a Washington mi mettesti in contatto con Lamberto Dini, a casa del quale potei incontrare il rappresentante del Fondo monetario». È così che Napolitano raccontò quella missione – con Alberto Jacoviello, corrispondente de L’Unità sempre alle costole quasi per controllarlo – su Rinascita. “Si fa fatica, da parte di molti, a ‘inquadrarci’; e non parlo di avversari dichiarati e irriducibili, ma di persone e forze impegnate a comprendere e a valutare obiettivamente la realtà del Pci. È comunque un fatto che si è acceso un interesse, che si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice”. Un’apertura importante che diversi anni dopo lo porterà al Viminale.
Per approdondire
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Tra le panzane su di lui: ‘educazione sabauda’, direbbero sorridendo i maligni che qualche anno fa fecero girare in rete la bufala, corroborata da una certa somiglianza fisica, che Napolitano potesse essere effettivamente di sangue blu, figlio illegittimo dell’ultimo re d’Italia, Umberto II di Savoia, e per questo chiamato ‘Re Giorgio’. Un gossip alimentato dalla circostanza che sua madre, contessa di Napoli (titolo che, da comunista doc, lui ha sempre accuratamente nascosto), fosse una delle dame di compagnia della regina.
Invece quel ‘titolo nobiliare’, meno romanticamente, gli venne affibbiato su input dell’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, durante il caso delle intercettazioni telefoniche con Nicola Mancino per la vicenda della ‘trattativa Stato-mafia’. Napolitano voleva che fossero distrutte in quanto giudicate irrilevanti: così Zagrebelsky lo accusò di ‘rivendicare privilegi da monarca assoluto’, appunto da re. Ma quella non fu la sola contumelia che Napolitano si prese. Il giornalista e storico inglese Perry Anderson lo apostrofò, sulla rivista London Review of Books: ‘Vicar of Bray’, paragonandolo a un novello don Abbondio che cambia parere ogni volta pur di ottenere credito politico.
Naturalmente anche la destra italiana non mancò di criticarlo, perfino il mite Sandro Bondi gli diede ‘dell’inutile’ e, in seguito, Renato Brunetta rincarò la dose biasimandolo perché non era a suo dire ‘super partes’. Ma, è dal popolo della sinistra – tu quoque – che sono arrivati gli attacchi più duri. Il più eclatante fu quando, nell’aprile del 1996, capolista a Napoli non venne rieletto deputato. Uno smacco che lui poté consolare con l’incarico a ministro dell’Interno del governo dell’Ulivo di Romano Prodi.
La vita dura di un ‘Gattopardo’ che nel 2011, in qualità di presidente della Repubblica, fece nascere il governo dell’austerità ‘abbattendo’ il premier Berlusconi e sostituendolo con Mario Monti che, guarda caso, era stato nominato, appena una settimana prima, senatore a vita, sempre da Napolitano, con un accordo di cui mai si sapranno i collateral agreements, lasciando peraltro in bianco nomi meritevoli come Gianni Letta e Lamberto Dini. Due anni dopo Re Giorgio, nonostante le perplessità di molti, inforna altri senatori a vita, come ‘stampella al governo di sinistra di turno’, per dirla alla Francesco Storace, il quale si prende un’accusa per vilipendio al Capo dello Stato – dalla quale verrà poi assolto -. Dell’infornata di senatori, una è donna: Elena Cattaneo, 50 anni appena, professoressa che si fa notare più per le assenze che per la propria scienza.
Questo era Giorgio Napolitano, grande amico dei Papi ed europeista convinto, l’uomo dall’animo da mediatore che, tolti i modi azzimati e raffinati, era propedeutico a sé stesso e alla causa che abbracciava. Di Berlusconi è stato sempre un fiero oppositore, ad eccezione del debole per due ministre dei governi del Cavaliere, Stefania Prestigiacomo e Mara Carfagna. Apprezzava anche altre compagnie e preparava in ogni minimo dettaglio gli incontri con il mondo dello spettacolo.
Nei corridoi del Quirinale viene ancora ricordato un siparietto divertente in cui la first lady signora Clio, amata moglie di Napolitano, prima di andare ad un ricevimento con la regina consorte Rania di Giordania in visita in Italia, appare davanti al marito con indosso una preziosa collana del tesoro dei Savoia. Napolitano le chiede se sia il caso e Clio, senza scomporsi: “Se non la metto oggi davanti ad una regina quando mai lo farò?” Chissà se in quel momento il presidente non abbia pensato: ‘meglio stare in costume nelle acque di Stromboli’, il suo buen retiro estivo o in quelle di Capalbio. In effetti, un comunista vero che ci sta a fare con una regina? A tal proposito, un giudizio del giornalista Edmondo Berselli recitava: “Napolitano è la sintesi migliore dell’impossibilità del Pci di essere normale”. Ad impossibilia nemo tenetur.
Luigi Bisignani per Il Tempo, 23 settembre 2023