La scorsa settimana, sulle colonne di Repubblica, rispondendo (anzi,non rispondendo) all’invito del suo collega scrittore Sandro Veronesi, che lo sollecitava a salire simbolicamente su un barcone-Ong, Roberto Saviano aveva trovato il modo per paragonarsi a Giacomo Matteotti, o comunque per evocare un parallelismo tra gli attacchi che subisce lui e quelli che subì Matteotti prima di essere trucidato dai fascisti.
A Roberto Saviano non dev’essere sembrato abbastanza. E allora ha ripreso carta e penna e, nella sua rubrica settimanale su L’Espresso, è tornato sul tema. Quale tema? Il fatto che i suoi odiatori lo calunnino, gli attribuiscano attici newyorchesi che non ha, e così via. Ma tutto questo lo sappiamo già, perché Saviano ce l’ha detto già diverse volte.
Il fatto nuovo è che, dopo aver evocato Matteotti, stavolta l’Oracolo campano si paragona a Giovanni Falcone. Motivo? Il celebre episodio del primo fallito attentato contro il magistrato all’Addaura, in una villa sul mare. Saviano ricorda che tanti (va detto: in modo infame) accusarono Falcone di essersi organizzato l’attentato da solo, e di fare la bella vita in vacanza.
Però, sia consentito: non sarà che a Saviano la megalomania stia un tantino sfuggendo di mano? Quale persona di buon senso, in meno di una settimana, potrebbe paragonarsi a Matteotti e Falcone, autoattribuendosi una patente di martire?
E soprattutto: davvero chi non la pensa come Saviano o chi lo attacca può (più o meno subliminalmente) essere qualificato come squadrista fascista o come mafioso? Direbbe Totò: “Qui si esagera”.