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La minaccia che arriva dalle carceri

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Manettari e giustizialisti. Galeotta, è proprio il caso di dire, fu la rivolta nelle carceri ai tempi del Coronavirus per far rifiorire l’amore tra il premier Conte, il suo scudiero più fidato, il Guardasigilli Alfonso Bonafede e il leader della Lega Matteo Salvini, contrari ad ogni forma di provvedimenti umanitari.

Di fronte al rischio di un contagio dilagante del Covid-19 e alla totale assenza di misure di prevenzione sanitaria, le nostre carceri, più affollate di un aperitivo al Papeete in agosto, sono una polveriera pronta ad esplodere nuovamente. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria  (DAP)lo ha scritto riservatamente, in tutti i modi, ben sapendo che una nuova rivolta nelle carceri non sarà più controllabile come la precedente, anche perché giorno dopo giorno, cresce la solidarietà tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria che, non bisogna dimenticarlo, entrano ed escono quotidianamente dagli istituti penitenziari e non dispongono tutti a  tutt’oggi di alcun kit di protezione.

I dati parlano di 61 mila detenuti i130% in più dell’effettiva capienza, in spregio a qualsiasi principio di civiltà e umanità con i reparti di infermeria  allo stremo e con poche postazioni per la terapia intensiva. Un altro punto evidenziato dal DAP è il continuo arrivo dei cosiddetti nuovi giunti visto che, ovviamente, la macchina repressiva non si è fermata.

Secondo gli esperti, tali soggetti non dovrebbero essere inseriti nei circuiti carcerari, ma nelle celle di sicurezza delle Forze di Polizia o delle strutture militari per rigorosi controlli sanitari, almeno per 14 giorni, così come sta avvenendo per tutti i cittadini. Ancora sulle carceri, a parte le lodevoli intenzioni, dei braccialetti elettronici e della possibilità di arresti domiciliari per i detenuti con reati minori e a fine pena, non c’è ancora nulla di chiaro, se non l’intasamento dei Tribunali di Sorveglianza, già al collasso organizzativo prima di questa pandemia, che dovranno decidere caso per caso.

Era inevitabile nelle settimane scorse che il divieto tout court introdotto con decreto-legge dei colloqui dal vivo, unico sbocco di un detenuto verso il mondo esterno e i propri affetti, e la possibilità di sospendere la concessione dei permessi premio e del regime di semilibertà, avrebbero determinato un’insurrezione dei carcerati, nonché un prevedibile approfittarsi della situazione da parte di alcuni di essi, invero una minoranza. È di ieri la notizia del primo detenuto positivo.

Quanti sono nelle carceri, al momento, i detenuti o operatori della polizia penitenziaria con la febbre e quanti tamponi sono stati fatti per verificare se il virus è già dilagato in quelle strutture? Come se non bastasse, sul fronte giustizia continuano ad arrivare notifiche di atti giudiziari da tutte le Amministrazioni interessate, che impongono impugnazioni da parte degli avvocati dinanzi a diverse Autorità, che vanno dalla Ragioneria generale dello Stato ai giudici penali, perché non si è avuto il coraggio, o almeno la competenza, in questo periodo di emergenza, di bloccare espressamente tutto l’iter dell’attività giudiziaria, come avviene in agosto. O meglio, è stato comunicato come al solito in conferenza stampa urbi et orbi, ma senza prevedere, espressamente e chiaramente, la sospensione di tutti i termini, anche di quelli per le impugnazioni, per il deposito di querele e per qualsiasi altro atto.

Il caos come conseguenza e i poveri avvocati in subbuglio, peraltro non troppo tutelati dai vari organi rappresentativi.
Se c’è una pandemia, e dunque una situazione straordinaria di necessità e di urgenza, bisogna avere il coraggio e la competenza di adottare provvedimenti seri e radicali.

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