Politica

La morsa di Ong e giudici per favorire i clandestini

La morsa di Ong e giudici per favorire i clandestini

Per ogni passo in avanti che l’Unione Europea sembra fare nella direzione di un contenimento dei flussi, c’è chi cerca di riportare tutto al punto zero. In nome dei “diritti umani”, ca va sans dire. Lo scorso maggio l’Europa ha approvato il Nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo che prevede il rafforzamento delle frontiere e dunque screening più veloci e procedure più snelle per detenzioni e rimpatri, specialmente per quanti arrivano da Paesi considerati sicuri come la Tunisia da cui si scappa soprattutto per motivi economici. Si chiama “border procedure” e si tratta di una novità a suo modo rivoluzionaria perché oltre che per quanti vengano considerati un pericolo per la sicurezza e per i richiedenti asilo che abbiano ingannato le autorità presentando false informazioni sulla propria identità o nazionalità, d’ora in poi si applicheranno anche a chi proviene da paesi con tassi di riconoscimento dell’asilo inferiori al 20%.

Tra questi rientra per l’appunto la Tunisia che negli ultimi anni ha rappresentato il principale paese d’origine degli sbarchi sulle coste italiane. Grazie agli accordi con la Tunisia ad oggi si è registrato un calo degli arrivi di circa il 60% ma solo lo scorso settembre, si erano toccate punte di più di mille migranti sbarcati nel giro di 24 ore. Un boom che aveva messo a dura prova Lampedusa per settimane. Poi sono arrivate Giorgia Meloni e Ursula Von der Leyen, è partito l’alleggerimento dell’hotspot grazie a trasferimenti lampo e la famosa frase della commissaria europea: “Decidiamo noi chi entra in Ue. Non i trafficanti”.

Linea dura contro i flussi irregolari dunque ma è proprio tra le fessure di questi desiderata e del nuovo Patto sulla migrazione messo a punto dall’Europa che si incuneano i presupposti di una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia per “l’illegittimo trattenimento” di quattro tunisini nonché per le “condizioni disumane e degradanti” presso l’hotspot di Lampedusa. Un ricorso presentato dalla potentissima ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e da Maldusa, collettivo che si batte per il libero movimento delle persone e neanche a dirlo è sceso in mare con una imbarcazione di monitoraggio dei soccorsi. Secondo la sentenza, i migranti sarebbero inoltre stati espulsi verso la Tunisia senza un adeguato screening della loro richiesta di asilo.

Il caso è del 2018, la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 2023 (attenzione, non è un organo dell’Unione europea), ma poiché ad oggi l’Italia non avrebbe ancora fornito informazioni sulle risposte che vuole adottare alle richieste dei Giudici di Strasburgo, lo scorso 13 giugno il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha intimato il governo italiano a darsi da fare. Tempo massimo: il prossimo 15 novembre 2024.

Che l’hotspot di Lampedusa, una capienza pari a 400 posti, si sia trovato in alcuni periodi ad accoglierne fino a dieci volte tanti e dunque non sia sempre stato all’altezza, non è una scoperta. Così come il fatto che eventuali lavori di ampliamento devono comunque tenere conto dell’equilibrio di un’isola di neanche 6mila abitanti. Al netto di migliorie alla struttura dunque, le soluzioni non possono prescindere da dispositivi di trasferimento rapido dei migranti in centri più adeguati. Direzione verso la quale va anche l’operazione Albania che non a caso si rivolge proprio ai migranti provenienti dai paesi sicuri e quindi soccorsi sulla rotta tunisina.

Ora, sebbene la notizia della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della reprimenda all’Italia da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, abbia conquistato titoli roboanti su qualche quotidiano, sembra difficile che possa mettere in discussione la strada intrapresa dall’Europa e dall’Italia per contenere gli arrivi.

Sulla carta infatti, l’impianto della nuova normativa europea appare in ordine. Tra i punti cardine infatti vi è la costruzione di centri non sovraffollati e soprattuto il rispetto dei diritti umani nonché delle tutele legali a garanzia del richiedente asilo. Proprio quello che secondo la Corte Europea dei Diritti Umani sarebbe mancato nel 2018 dato che i cittadini tunisini sarebbero stati ospitati in condizioni disumane, trattenuti in assenza di un provvedimento motivato da un giudice e rimandati indietro senza una valutazione ad personam. L’intera vicenda mette però in luce un possibile tallone di Achille. I nuovi dispositivi messi a punto per velocizzare lo screening di quanti arrivano dalla Tunisia potrebbero infatti essere considerati discriminatori verso i tunisini che sbarcano in modo irregolare perché, nonostante si tratti per lo più di migranti economici e dunque non abbiano diritto a qualche forma di asilo, come spiega Lucia Gennari di Asgi, “non ci sono requisiti per poter accedere alla richiesta di protezione internazionale che si basino sulla nazionalità”. Motivo per cui è sempre necessaria una valutazione dei richiedenti caso per caso.

In questo senso è tutto da vedere come le nuove procedure veloci di controllo alla frontiera riusciranno ad essere messe in pratica. Se davvero, come si legge sulla carta, verranno espletate entro un massimo di 12 settimane (3 mesi) o se invece si perderanno in mille rivoli legali. Anche perché già si immaginano schiere di avvocati e ONG sul piede di guerra, pronti a intercettare migranti tunisini desiderosi di fare ricorso contro il prevedibile diniego della propria domanda di asilo.

Quanto le associazioni immigrazioniste siano sollecite nel fermare ogni iniziativa che di fatto contenta le partenze dalla Tunisia, lo si è visto anche con il caso delle 6 motovedette che l’Italia doveva consegnare alla Guardia Costiera tunisina per rafforzarne le operazioni di soccorso dei migranti in mare. Anche qui, ASGI, insieme ad Arci, Action Aid, Mediterranea Saving Humans nonché il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (FTDES), avevano provato a bloccare il trasferimento delle motovedette con un ricorso al TAR in questo caso usando come grimaldello il concetto di “safe country” e dunque sostenendo che la Tunisia non fosse né un paese di origine sicuro, né un luogo sicuro di sbarco per quanti soccorsi in mare. Se inizialmente il Consiglio di Stato aveva accolto il ricorso, successivamente ha dato ragione al governo italiano confermando che la Tunisia è un paese sicuro a tutti gli effetti.

Inutile dire che quella messa in atto dalle ONG è un’operazione disonesta. Sebbene l’intento dichiarato sia politico, “sostenere il diritto di ogni essere umano di circolare liberamente a prescindere dalle motivazioni che lo spingono a spostarsi”, dunque anche economiche, poi però l’operazione poi viene trasformata in una questione umanitaria così da creare i presupposti perché chi scappa venga inserito nel percorso della richiesta di asilo. Non a caso sono gli stessi che portano avanti la demonizzazione del Presidente tunisino Saied cosi’ come il racconto di una Tunisia dove avvengono persecuzioni e violenze sistematiche. Cosa non vera. Le leggi internazionali sul diritto di asilo sono però estremamente garantiste nei confronti di eventuali richiedenti asilo perché il principio di fondo su cui si basano non è quello di impedire l’ingresso a chi non ha diritto di entrare, bensì impedire che chiunque abbia anche la più remota possibilità di ottenere una forma di protezione, venga respinto.

Infine, altro eventuale punto debole sul quale occorre fare molta attenzione, è quello dei minori non accompagnati, categoria sicuramente vulnerabile che merita giuste attenzioni ma usata in chiave strumentale dato che gli under 18 spesso non sono reali bensì solo “presunti”. Non a caso, anche se non c’entra nulla con il caso dei 4 tunisini, tutti più che già maggiorenni al momento del soccorso, il ricorso di ASGI presso la Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha arricchito le proprie argomentazioni ricordando come nell’hot spot di Lampedusa, i migranti minorenni si siano più volte trovati privi di spazi e attenzioni adeguate.

Insomma, in vista dell’apertura dei centri in Albania, il caso in oggetto sembra rappresentare un ottimo spunto di riflessione onde evitare inciampi, passi falsi e prepararsi all’ondata di possibili contenziosi. Rispetto al ricorso dei 4 cittadini tunisini, l’Italia è stata sanzionata con una multa di 34 mila euro ma la prossima volta, in ballo potrebbe esserci molto di più.

Francesca Ronchin, 15 luglio 2024

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