Società

La cancel culture occidentale

La nuova follia della cancel culture: “il vaiolo delle scimmie” discrimina

Il politicamente corretto colpisce ancora: anche la formula “vaiolo delle scimmia” può essere discriminatoria

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Nell’ondata di politicamente corretto che stiamo vivendo, si sono sviluppate almeno due correnti principali, che permeano in tutti gli ambiti della nostra quotidianità. Da una parte, quella della cancel culture alla Black Lives Matter, in cui la storia viene cancellata, distrutta, eliminata, tramite l’abbattimento di statue e simboli occidentali. Solo nel 2020, per esempio, più di 150 monumenti americani sono stati abbattuti: da George Washington ad Andrew Jackson, passando per F. D. Roosevelt, fino ad arrivare ad Abraham Lincoln e Ulysses Grant. I grandi del passato vengono uccisi una seconda volta, questa volta nella loro memoria.

Dall’altra, quella della censura, del pensiero unico, dell’omologazione. Il politicamente corretto si sta dimostrando il Grande Fratello orwelliano di 1984. Un fenomeno deleterio, in continua espansione, capace di ridurre le rappresentazioni della storia dell’umanità alla semplice scelta tra vero o falso, conforme o non conforme, puro o impuro, etico o non etico, morale o amorale. Insomma, una nuova neoligua tinta di conformismo.

Cambio di nome

Ebbene sì, dopo un biennio di pandemia, che ha visto l’istituzione di task force contro le fake news, da parte del governo Conte II – forse, proprio per assumersi il monopolio (dis)informativo – anche la materia sanitaria è stata contaminata da questa violenta ondata. Un gruppo di ventinove scienziati, infatti, ha pubblicato un documento con cui si richiede il cambio di nome al “vaiolo delle scimmie”. E quale sarebbe la motivazione? Esatto, perché la formula in questione discriminerebbe la popolazione africana: “Il continuo riferimento all’Africa non è solo impreciso, ma, come detto, anche discriminatorio e stigmatizzante”. Ed ecco che arriva il nuovo nome: hMPXV.

Il metodo non è nuovo in Occidente. Già a gennaio 2021, dopo la scoperta dei primi casi di Covid-19 in Cina, la sinistra politicamente corretta era ben lungi dal chiamarlo “virus cinese”. Anzi, il primo (e l’unico) a vederci lungo fu il tanto odiato Donald Trump, il quale, in mezzo a tanta idiozia e cecità progressista, tinta di radical chic, evidenziò fin da subito le responsabilità del regime di Pechino, le sue omissioni, il tentativo – che prosegue ancora oggi – di ostacolare le ricerche dell’Oms sulle vere origini del virus.

Ipocrisia occidentale

Ai tempi, i nostri Zingarettiani doc erano preoccupati per la discriminazione, il razzismo, la violenza verbale nei confronti della popolazione cinese. E mentre in casa stava esplodendo una vera e propria bomba ad orologeria, ecco che i sindaci di Cremona e Bergamo, targati Pd, cenavano ai ristoranti cinesi, in nome dei tanto sventolati principi di solidarietà e tolleranza. Oppure, il presidente Mattarella si recava in visita ad una scuola con alta presenza di bimbi cinesi.

Se volessimo seguire, solo per un minuto, il ragionamento politicamente corretto, secondo cui bisogna stare attenti financo ai nomi dei virus o delle malattie, perché tutta questa solidarietà non c’è nei confronti dei cittadini, degli atleti o dei musicisti russi? Questi ultimi, al contrario, sono stati le prime vittime di un atteggiamento propriamente intollerante, che ha visto l’esclusione di tennisti, professori o artisti russi solo perché russi, puntando il dito contro il singolo individuo, reo di condividere con Putin la stessa Patria. Questo basta per essere squalificato, emarginato, messo all’angolo.

La guerra contro Mosca non si vince attraverso i boicottaggi simbolici e culturali. Allo stesso modo, la tolleranza e l’uguaglianza non si raggiungono attraverso ridicole battaglie verbali, composte da asterischi, schwa o altre nuove revisioni linguistiche. Ieri, Gramsci parlava di “forma di controllo”; oggi, il politically correct impone una nuova egemonia culturale, quella del linguaggio, sotto la maschera pirandelliana della “inclusività”.

Si badi bene, però: chi cerca di ritagliare con la forbice i confini della libertà di espressione, anche se con buoni propositi, finirà col chiudere completamente lo spazio del dibattito, del confronto, della visione. Passo dopo passo, trionferà esclusivamente il pensiero unico, l’unanimismo, la “cultura della cancellazione”. O forse, sarebbe meglio dire la “cancellazione della cultura”.

Matteo Milanesi, 15 giugno 2022