Secondo impulso: il revisionismo non si applica in forma di interventismo militare (vedi Bush jr. e, con meno intensità, Obama) ma sempre più fa leva su fattori economici (sanzioni) e tecno-digitali (cyber). Da qualche tempo gli americani appaiono a disagio sul terreno (Iraq, Siria, Afghanistan) e preferiscono piegare a proprio vantaggio l’architettura dei rapporti internazionali dove maggiore è il loro divario di forza (ma ciò crea scosse e squilibri di cui è difficile valutare l’incidenza a medio-lungo termine: vedi ruolo del dollaro). Trump, con qualche reminiscenza isolazionista, vuole limitare quanto più possibile l’applicazione della forza militare all’estero.
Terzo impulso: diventa cruciale la questione delle alleanze. La revisione dei rapporti con il falso amico cinese e con la Germania/Ue alleata soprattutto a parole dirada i sostegni americani nel mondo: sicuri restano le potenze anglosassoni (Five Eyes), Israele, il blocco saudita, il Giappone. Il revisionismo però ha bisogno di alleati: quello che sarebbe cruciale ovvero la Russia – anche per evitare l’isolamento nel trio delle grandi potenze mondiali: ora c’è una sorta di Kissinger 1972 alla rovescia – incontra l’ostilità di gran parte del mondo di Washington e sembra praticabile solo a piccoli passi (come si vede in Medio Oriente e forse anche a Pyongyang), in dosi omeopatiche. Ciò rende più grave l’ambiguità mercantile della Germania/Ue che s’incarta nell’incertezza strategica e indebolisce le democrazie occidentali.
Antonio Pilati, 25 giugno 2019.