La password di Stato è peggio che sovietica

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Diciamo la verità: noi liberali abbiamo perso la guerra. Quella culturale, prima di tutto. Non che, in verità, avessimo mai vinto tante battaglie nel nostro Paese in passato, ma, almeno a livello formale, ci si portava rispetto e, quanto meno, si aveva vergogna a manifestare in pieno in pubblico le proprie pulsioni più recondite e i propri spontanei riflessi antiliberali. Oggi non più. Particolarmente in questo momento in cui al governo c’è forse il governo più statalista della storia della Repubblica: un mix di statalismo socialista, cioè redistributivo, e di giustizialismo, che ha nella leva fiscale il proprio prioritario mezzo di azione. Non c’è dubbio però che, con le parole usate ieri ai microfoni di “Radio 1”, e poi goffamente corrette, la ministra dell’Innovazione tecnologica e della digitalizzazione abbia superato ogni limite.

Paola Pisano, ai microfoni di “Radio 1”, ha infatti proposto di usare le nuove tecnologie digitali per sottrarre agli individui la proprietà della propria vita privata affidandola a un mostro leviatanico che in ogni momento possa controllarla, limitarla, indirizzarla. La Rete, nata come strumento di affermazione di libertà e democrazia, si convertirebbe in poche parole in un sistema per realizzare un regime totalitario perfetto: il Grande Fratello 5.0. La password unica digitale, semplificatrice e sburocratizzatrice, e perciò liberale, dovrebbe essere in potenza, agli occhi del ministro, molto di più di quel che noi avevamo creduto: l’unica ad accompagnarci in ogni nostra operazione in rete (cioè ormai nel 90% della nostra vita) e per di più stabilita dallo Stato. Ora, per dire dell’aberrazione di una tale idea basti pensare a come oggi scegliamo le nostre password, che non a caso riteniamo quanto di più intimo e personale possa esserci: la data in cui è nata la nostra donna o l’abbiamo conosciuta, un momento significativo della nostra vita lavorativa, una data che poniamo come deadline nel futuro per realizzare un nostro obiettivo…

Per fortuna la provocazione del ministro ha generato rifiuto, imbarazzo, indifferenza, indignazione quasi generalizzata: anche all’interno della stessa maggioranza, ove Matteo Renzi che si è detto giustamente “inquietato”. Ciò che a me preme qui sottolineare sono però due elementi. Il primo concerne il paragone che è stato fatto con gli Stati del socialismo reale, con i controlli ad esempio che avevano corso nella Germania comunista della “vita degli altri” da parte della famigerata STASI. Un raffronto dopo tutto sbagliato, a mio avviso: sia perché i mezzi di un tempo erano molto meno sofisticati e spesso diventavano parodistici (come la cinematografia ci ha insegnato), sia per un motivo di fondo che direi teorico. Nel comunismo totalitario, infatti, in dottrina si lasciava comunque spazio a un futuro utopico “regno della libertà” in cui lo Stato si sarebbe estinto e la libera creatività individuale avrebbe finalmente trionfato. Qui invece lo Stato diventa il fine ultimo e permanente che si fa garante delle nostre volontà, che pertanto non sono più nostre ma sue.

Statalismo come fine, e non solo come obiettivo. Ora che anche solo possa venire in mente un’idea del genere, fosse pura in modo irriflesso e istintivo (il che è un’aggravante), convinti anzi di stare dicendo qualcosa in positivo e non in negativo, è altamente significativo, ed è questo il secondo elemento che porto all’attenzione. Esso denota come la nuova classe dirigente, specchio in buona parte del paese reale, non abbia proprio il gusto o la passione per la libertà e ragioni naturaliter nel senso inverso. È questa la vera débacle culturale del nostro Paese, e l’elemento che ci fa dire che, almeno in questo momento, la guerra per noi liberali è persa. 

Corrado Ocone, 5 gennaio 2020

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