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La pista cinese che inguaia gli uomini del governo

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Grazie Roma, gorgheggiava Antonello Venditti, Grazie Cina gorgogliava invece Walter Ricciardi e finalmente si comincia a capire perché. O meglio, si comincia ad avere contezza del filo rosso che univa – unisce? – Palazzo Chigi a Zhongnanhai, sede del Partito Comunista e del governo cinese. Tutto rimanda a una cabina di regia che sembra aver ridotto l’Italia a una dependance di Pechino, tutto fin dall’inizio: il morbo che non si poteva nominare, men che meno collocare a Wuhan – grazie, Cina – la confusione organizzativa del nostro esecutivo, l’indecisione sui primi focolai a Vò Euganeo, a Codogno, la strategia di chiusura ossessiva, mai abbandonata, improntata al modello originale – grazie, Cina –, i presìdi sanitari, gli strumenti, i dispositivi.

Il (ricco) ciarpame cinese

Prima le mascherine a mandorla, 801 milioni di lacerti che non schermavano niente, costavano troppo, e hanno, secondo la magistratura, originato affari mostruosi, 1,2 miliardi a fronte di commissioni anomale per 64 milioni, sospetti che adesso inseguono anche l’ex padreterno Arcuri, commissario straordinario sì, ma solo nei disastri. “La Verità” in questi giorni è scatenata e adesso scoperchia un secondo calderone, quello dei ventilatori acquistati sempre dallo stesso subcontinente esportatore del virus, subito, a inizio emergenza, 13 marzo 2020, per firma dell’ex capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e, esattamente come le mascherine, fallaci, tarocchi o, per dirla ancora con gli inquirenti, “non conformi ai requisiti di sicurezza previsti dalla normativa vigente”. Grazie, Cina. Tra i garanti dell’operazione spunta in una mail pure il nome di Massimo d’Alema, non indagato ovviamente, cui, al di là della situazione in esame, si attribuiscono legami forti con la Cina e un ruolo di padre nobile dello stesso ministro Speranza.

Il peggior ministro di sempre

Ecco, Speranza. L’uomo che decide ma sembra sempre non sapere, con quell’aria dimessa, dolente, quelle cinquanta sfumature di grigio sovietico, da appartchik. Tuttora non lambito dalle indagini, anche se la catena degli indagati sembra sempre più risalire fino a lui: Arcuri, Ranieri Guerra, e più in alto che c’è?

Perché sullo sfondo ribolle un terzo filone d’inchiesta e questo è forse il più grave, di certo il più urticante per il profeta dell’ergastolo, lo scrittore di libri abortiti nei quali confessava alcuni disturbi che, col senno di poi, assumono i contorni di fantasmi carnivori per tutti: non sopporta di vedere in giro nessuno, già due persone gli mettono l’ansia, se passa una macchina non ne parliamo, finisce nel panico. Per uno così noi stiamo reclusi da 14 mesi ed è lo stesso che ancora in queste ore recita il mantra: l’estate non sarà un liberi tutti. Se è per questo, neppure la scorsa, ma ci torneremo con calma.

Speranza è probabilmente il ministro in assoluto più disastroso nella storia patria, non solo quella repubblicana, non solo alla Sanità, eppure resta, passa come una salamandra da un governo all’altro e i premier si passano il testimone della stima incondizionata verso di lui. Ce ne vuole a tenerlo su, perché il pasticciaccio brutto del piano pandemico, che non c’era, però c’era, però era datato, però non è stato aggiornato, però non è stato applicato neppure quello, beh, è veramente scabrosa, al limite del clamoroso. E conviene restare garantisti, anche perché si sa come finiscono queste faccende in Italia, tempo al tempo e passa tutto in cavalleria, certo però che i messaggi fra Ranieri Guerra e Silvio Brusaferro sono colpi di maglio sulla decenza e la trasparenza; risuonano lugubri e implacabili come rintocchi a morto sulla credibilità di un intero sistema: “Sono stato brutale con gli scemi di Venezia (e si legge Zambon, il dirigente coraggioso che non fu ascoltato dall’OMS quando riferì di manovre per soffocare lo scandalo del piano mai adeguato e mai adottato, e infine, logorato e solo, si risolse a dimettersi), ho rivolto scuse profuse al ministro (per cosa?), spero di far saltare un paio di incorreggibili teste”. Invece le teste saltate sono la sua e quella di qualcun altro, al momento. Non quella di Speranza, cui nessuno chiede conto di tante opacità – e c’è un libro, “Epidemia di balle”, a cura di Maurizio Belpietro, Francesco Borgonovo, Camilla Conti e Antonio Rossitto, tutti de “la Verità”, che le mette in fila – nessuno lo stuzzica su questo, non il tecnico di alto profilo Mario Draghi, né il conduttore di alto profilo piddino Fabio Fazio.

Speranza sapeva o non sapeva?

Resta la macchia di un report sulle lacune nazionali che, se preso sul serio e in tempo, avrebbe probabilmente evitato qualche migliaio di morti e invece risulta bellamente occultato – e si parlava dei criteri del tracciamento sui contagi nei quali la stessa OMS annaspava, tanto che alla fine ha scelto di far sparire tutto dietro asserite pressioni del Ranieri Guerra. Con tanto di “scuse profuse al ministro”. Speranza sapeva o non sapeva? C’è una sorta di malintesa indulgenza su questo omarino, detestato sì, ma quasi con tenerezza dato l’aspetto spaesato, quell’aura palesemente inadeguata, quell’aria da sventurato che si porta appresso. Come se non fosse in grado di far del male a una mosca, di suo. Ma è il padrone delle decisioni sanitarie, e decisioni che non hanno salvato nessuno e hanno perso tempo, non hanno saputo organizzare alcuna profilassi, nessuna linea di difesa dal contagio, non l’ombra di una organizzazione strutturale nei reparti: solo colossali campagne mediatiche fondate sul terrore, su operazioni di parata, su dati che non tornano, e già si sospettava, si parlava di quei respiratori che non andavano bene, che forse peggioravano le condizioni dei pazienti sino ad esiti fatali, tuttavia mai dimostrati perché, tra le varie nefandezze del sistema, ci fu anche il rifiuto di procedere ad autopsie: troppo rischioso per via del contagio, si disse; un anno dopo, viene fuori che alcuni di quei cadaveri sono stati recuperati per cedere i loro organi.

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