La predica di Scurati per propinarci la clausura

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Da M (come Mussolini) a S (come sofferenza). La metamorfosi di consonante di Antonio Scurati, scrittore premiato e celebratissimo per il suo romanzo M. Il figlio del secolo appare improvvisa sul Corriere della Sera dove il nostro ha firmato un commento che già dal titolo induce a toccar ferro: Consapevolezza nella sofferenza.

Sopra, nell’occhiello,  campeggia la scritta “Il fronte comune”. Fronte, si sa, era parola cara a Benito Mussolini ed alla sua maschia idea dell’Italia anche se bisogna aggiungere che il Duce pure sull’etica della sofferenza non scherzava, spiegando sovente agli italiani che il fascista non ama la vita comoda e che “senza sforzo, senza sacrificio e senza sangue nulla si conquista nella storia”.

S come sofferenza

Ma lasciamo la M di Mussolini e torniamo alla S di Scurati e di sofferenza. Anzi, al suo commento dove, tra le altre cose, si legge: “La prima manifestazione della capacità di soffrire sta nel riconoscere la sofferenza come nostra, appropriarcene e, dunque, smettere di frignare incolpando per la sua esistenza il destino, i cinesi o i governanti. Solo in apparenza possiamo scegliere tra il lockdown e le scuole, i teatri, i ristoranti. Se sceglieremo le scuole, i teatri, i ristoranti, avremo comunque il lockdown. Ma con più danni, più morti, più sofferenza”.

Da qui Scurati accompagna poi il lettore nella “fenomenologia della sofferenza dissennata” scrivendo che “è varia e vasta: l’estate sciagurata, la sua sottocultura balneare che ha autorizzato nel pieno di una pandemia a viaggiare all’estero e a ballare in discoteca; l’autunno di autobus affollati in cui superdiffusori diciottenni infettano, mentre vanno a scuola sbadigliando, con il morbo delle notti di movida i padri che vanno a lavorare; leader da tempo di pace che si aggirano smarriti e rintronati in zona di guerra, governanti locali (lombardi) incapaci di ordinare per tempo e al giusto prezzo una fornitura di vaccini, governanti nazionali che cedono alle pressioni confuse di quegli stessi governanti locali; gitanti compulsivi che rischiano la morte (propria e altrui) pur di fare la mangiata domenicale fuori porta; intellettuali che invocano la riapertura dei teatri (comunque vuoti) quali fonti di una preziosa cultura del tragico, dimostrando così di non aver nessun senso della tragedia incombente nella vita reale; virologi affaristi pronti a dichiarare, per interessi di bottega e liti da pollaio, contro ogni evidenza, la pandemia clinicamente estinta”.

Tra tutte queste parole ci soffermiamo  sull’anatema scuratiano contro il tempo estivo, le vacanze, la movida, un anatema che oltre alla S di sofferenza fa pensare anche alla S di Savonarola (il frate), quello che annunciava: “È sopra di voi imminente un gran flagello, e sarete flagellato nella roba, nella persona e nella casa vostra. Vi annunzio ancora, che della vostra vita ce n’è per poco; che, se non farete quel che vi dico, anderete nell’inferno” e qui ci fermiamo. Perché alla fine del suo commento Scurati sembra far virare il proprio scrivere della sofferenza in un barlume di speranza (minuscola, non il Ministro della Salute).

Speranza a primavera

“La ragione – scrive Scurati – ci suggerisce, invece, di sperare nella primavera. Sogniamo pure, in accordo con i cicli naturali, la rinascita a primavera. Sogniamo a occhi aperti, però, tenendo duro, stringendo i denti, facendo fronte. Questa è una ragionevole speranza. Se viene l’inverno – scrisse il poeta – non può essere lontana primavera”. Più che alla S di speranza qui si assiste ad un ritorno alla M ma di meteo (anziché di Mussolini) e al ciclo delle stagioni. A primavera arriverà il bel tempo, questo lo prevediamo (e comunque ce lo auguriamo) tutti. Del resto, come ripeteva spesso mio fratello, il Corsaro Verde, quando andavamo per mari, “dopo la primavera arriva sempre l’estate. Puoi scommetterci”.

Il Corsaro Nero, 2 novembre 2020

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