Vi sono tuttavia molti più nessi tra le due vicende di quanto non appaia. Il legame principale sta nella mutazione del ruolo del magistrato, avvenuta proprio in quegli anni Settanta di cui scrivevamo all’inizio del pezzo. Fino a quel momento, la magistratura era stata guidata da giudici conservatori, autorevoli, con un robusto senso dello Stato, che nel Ventennio avevano in parte salvato la magistratura dalla intrusione del fascismo. Per quei magistrati il giudice era un servitore dello Stato che doveva applicare la legge. Nulla di più, ma neanche nulla di meno.
Negli anni Settanta, anche su spinta del Pci, cominciarono invece a muoversi magistrati «democratici» che contestavano i loro capi, giudicati reazionari (anche per prendere il loro posto) ma che soprattutto ribaltarono il ruolo della funzione del giudice: non più colui che applica la legge ma quello che, con le sue sentenze, ne introduce di nuove. Un magistrato custode dei «diritti» e della «legalità», attore politico che, con i suoi pronunciamenti, si schiera dalla parte degli «oppressi» (ieri il proletariato immaginario, oggi gli immigrati) e in ogni caso contro il potere: purché non fosse quello amministrativo locale del Pci, ben inteso. Basta leggersi i convegni di Magistratura democratica per farsene un’idea.
Secondo il proverbiale detto secondo cui la moneta cattiva scaccia quella buona, l’esempio della magistratura politicizzata, nato a sinistra, si estese poi a tutte le altre componenti, soprattutto perché, prima contro Craxi, poi con Mani pulite, quindi contro Berlusconi, tale modello permetteva di accedere alla celebrità mediatica, alla carriera politica e in ogni caso a più rapidi avanzamenti all’interno della gerarchia giudiziaria. A quel punto il mercimonio per rivestire l’ambito ruolo di consigliere del Csm e la lotta tra correnti furono cosa inevitabile.
Finché non capiremo che, in Italia, la magistratura non può risolvere i problemi perché è essa stessa uno dei problemi, non ci muoveremo di un passo.
Marco Gervasoni, 6 giugno 2019