Con la scuola di massa, che va dal 1969 alla Buona scuola del governo Renzi, lo statalismo scolastico si espande per ogni rivolo e nulla sfugge alla sua “legalità”, anche quando le sperimentazioni improvvisano e frammentano il sistema, perché la scuola nella sua stessa genesi viene al mondo come scuola statale. Un caso esemplare del pan-statalismo del sistema scolastico italiano è costituito dal capitolo delle scuole paritarie.
Le scuole paritarie
Luigi Berlinguer, ministro dell’istruzione nel governo di Massimo D’Alema, con la legge del 10 marzo 2000, la numero 62, riconosce la parità scolastica alle scuole non statali che così sono riconosciute come scuole pubbliche gestite dai privati. La legge del ministro Berlinguer, fratello del più famoso Enrico, mette fine alla secolare disputa tra scuole statali e scuole private, tra laici e cattolici, riconoscendo la equipollenza o parità che non va intesa come una concessione, piuttosto come una conquista e, appunto, un doveroso riconoscimento da parte dello Stato del concetto di scuola che è sempre pubblica anche quando non è statale ma privata. L’obiettivo di Berlinguer è creare un sistema nazionale dell’istruzione formato sia dalle scuole statali, sia dalle scuole paritarie private e degli enti locali. Ma perché si parla di parità e in cosa effettivamente consiste la parità?
Ebbene, la parità riguarda la equipollenza ossia le scuole non statali che chiedono e ottengono la parità entrano a far parte del sistema nazionale dell’istruzione e sono così abilitate a rilasciare titoli di studio che hanno valore legale. Dunque, la parità esattamente è questa titolarità o abilitazione a rilasciare “pezzi di carta” aventi valore legale. Sennonché, una parità scolastica così concepita non solo lasciava perplessi e scontenti i cattolici ma alla fine risultava essere anche una sorta di omologazione delle scuole non statali che venivano assorbite dal sistema statale.
La legge 62, infatti, garantisce la parità tra le scuole ma non dice nulla sulla libertà di scelta delle famiglie e nulla fa per garantire alle famiglie, sulla base di una effettiva parità economica, la libertà di scegliere da chi far educare i figli. La legge pensata e voluta da Berlinguer in sostanza dava alle scuole non statali la possibilità di essere riconosciute “legalmente” tramite il loro adeguamento al modello statale ma sulla reale parità scolastica, che avrebbe dovuto considerare l’autonomia, era silente e non rispondeva alla domanda decisiva: chi paga? Per realizzare una vera parità si sarebbe dovuto approvare il cosiddetto buono-scuola ossia riconoscere alle famiglie, sulla base delle tasse e dei costi dell’istruzione, un buono da spendere liberamente in questa o in quell’altra scuola. La strada della libera scelta educativa non fu imboccata e così la parità fu solo un’ennesima disparità creata proprio dai campioni dell’ideologia egalitaria.
Il buono scuola
Anni dopo, infatti, e a più riprese – soprattutto nel bel mezzo dell’epidemia da Coronavirus – la falla del sistema nazionale dell’istruzione verrà a galla. Chi porrà con forza e con chiarezza il nodo del pieno esercizio della libertà di scelta per garantire un effettivo pluralismo scolastico sarà suor Anna Monia Alfieri che attraverso la elaborazione del metodo del costo-standard per alunno dimostrerà non solo che il buono-scuola è necessario, come è scontato che sia, per riconoscere alle famiglie il loro sacrosanto diritto di scelta educativa ma è anche utilissimo allo Stato per risparmiare molti miliardi e usare in modo più razionale ed equo le risorse destinate al sistema dell’istruzione. Eppure, nonostante tutto sia venuto alla luce, l’Italia è in Europa, insieme con la Grecia, l’eccezione alla giusta regola della libertà di scelta in barba al pluralismo scolastico che, lo si voglia o no, lo si riconosca o no, è la grande questione irrisolta della scuola italiana dal giorno in cui fu colpita a morte la scuola di Gentile ma non si creò una nuova scuola.
Presidi manager
Così anche la vicenda della parità scolastica, che avrebbe dovuto mettere Stato e Scuola in una nuova e giusta relazione, diventa occasione per accrescere l’insano statalismo della scuola italiana creando in tal modo la macchina perfetta della contraddizione permanente. La contraddizione insanabile della scuola italiana è pensare una cosa impossibile: che la Scuola sia lo Stato. È da questa assurdità che originano tutte le incongruenze, le ossessioni, la vanità, le vacuità del sistema scolastico pan-statale che vige in Italia. Casi esemplari sono senza dubbio i presidi trasformati in dirigenti scolastici o presidi-manager e la stessa autonomia scolastica. I presidi trasformati in dirigenti, un po’ come la zucca trasformata in carrozza nella favola di Cenerentola, non hanno in realtà nulla da dirigere. Il passaggio da preside a dirigente è solo un aspetto tutto amministrativo del sistema scolastico e risponde a due esigenze: da un lato un equilibrio tra responsabilità amministrativa e effettivo potere decisionale soprattutto nell’ambito della sicurezza degli edifici scolastici; da un altro lato la necessità da parte del ministero di avere sul posto un proprio dirigente per governare un sistema che tra crescita esponenziale delle scuole, presenza dei sindacati e sperimentazioni tende evidentemente a scappare di mano.
Autonomia e valore legale
In tal modo i dirigenti, una volta messa in sicurezza la loro stessa responsabilità, non hanno nulla da dirigere e sono dei meri esecutori amministrativi. Ancora più tragicomica è la vicenda della autonomia scolastica perché è del tutto palese che in un sistema regolato dal principio alla fine dal valore legale del titolo di studio l’autonomia non è nemmeno concepibile. C’è da stupirsi? Certo che no: l’Italia, del resto, è il paese delle riforme linguistiche e basta tirar fuori un nome per credere di aver cambiato anche la realtà. Un po’ come avveniva nei conventi medievali per contravvenire alla regola dell’astinenza dalle carni il venerdì: Ego te baptizo piscem e la carne diventava pesce pur restando carne. E così è per la scuola italiana che è detta autonoma ma nei fatti è inevitabilmente ministeriale nonostante i tanti “piani dell’offerta formativa” con cui, ormai, non è né carne né pesce.
Le scuole italiane non sono autonome nemmeno nella decisione di accendere o spegnere i termosifoni, s’immagini se sono autonome nella scelta dei docenti, nelle materie d’insegnamento, nell’orario, negli studi seri che sono il cuore e la testa della scuola. Autonomia e valore legale, autonomia ed esame di Stato sono contraddizioni in termini e solo chi non sa, non vuol sapere, non è interessato all’esperienza educativa degli studi può ritenere la contraddizione secondaria e un irrilevante incidente di percorso correggibile dal sistema. Fino a quando la contraddizione non sarà tolta – negata e conservata più in alto come diceva il filosofo – il sistema non correggerà l’incidente ma lo produrrà incessantemente perché tutto sarà sempre finalizzato al valore legale di cui l’esame di Stato è la massima espressione e così la scuola sarà perfettamente snaturata scadendo a una sorta di corso di addestramento per la prova finale con cui si distribuiscono i diplomi con vanagloriosi e fasulli voti massimi preparati negli ultimi tre anni delle superiori con il malsano sistema dei crediti scolastici. La scuola di Stato, fedele al suo principio ispiratore, è il primo e più grande diplomificio d’Italia.