Ieri la Corte penale internazionale ha emesso dei mandati d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità ai danni del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant, cacciato di recente dal governo dallo stesso premier. Secondo la procura, Israele avrebbe condotto un “attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Gaza”.
Era stato chiesto un mandato anche per alcuni capi di Hamas: Haniyeh, Sinwar e Deif, però i primi due sono certamente morti, secondo Israele anche l’ultimo, per il quale è stato comunque ordinato l’arresto. Secondo Laura Boldrini, deputata del Pd, dal momento che “i leader di Hamas sono stati uccisi non avremo giustizia per i crimini da loro commessi”. Cercheremo di farcene una ragione, ma ora torniamo alle cose serie.
Netanyahu sostiene che si tratti di una decisione politica e la paragona al caso Dreyfus, il quale prende il nome dall’ebreo condannato durante la terza Repubblica francese per tradimento e spionaggio a favore della Germania. Fu un errore/orrore giudiziario, figlio di un antisemitismo che dilagava nella società del tempo, e che ad oggi possiamo dire non essere mai morto. Anche la risposta di Gallant non si è fatta attendere, il quale ritiene che la Corte metta“sullo stesso piano Israele e Hamas, incoraggiando il terrorismo”.
A schierarsi a fianco di Israele ci sono gli Stati Uniti e l’Argentina, mentre l’Unione Europea si divide tra chi come Orban sfida la Corte invitando Netanyahu in Ungheria e chi come i Paesi Bassi sembra considerare legittima la decisione della CPI, la quale d’ora in poi negherebbe la possibilità al ministro di visitare gli Stati che aderiscono allo statuto di Roma della Corte penale internazionale (di cui non fanno parte né gli Usa né Israele).
Sulla questione sembra invece diviso il governo italiano, Crosetto assume una posizione piuttosto diplomatica, nonostante non condivida la sentenza dice che se il premier israeliano venisse in Italia si troverebbero costretti ad applicare l’ordine d’arresto e che l’unico modo per non adempiere alla decisione della Corte sarebbe quello di sfilarsi dall’accordo internazionale. Moderato anche Tajani, il quale afferma di sostenere la Corte ma che sarà valutata la sentenza. Decisamente meno temperata è la dichiarazione di Salvini, che, come Orban, sfida la decisione dei giudiciaffermando che “se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto”.
Lo scopo della sentenza è prettamente simbolico dato che di fatto non limita in alcun modo l’operato di Israele nella guerra. Il risultato che si ottiene è quello di porre il governo democratico israeliano sullo stesso piano dei terroristi, come per dire: “Voi non siete così diversi, alla fine siete due facce della stessa medaglia”. Questo è controproducente per la percezione del conflitto, perché se si fa passare il messaggio che la difesa israeliana, seppur ritenuta sproporzionata, sia equiparabile al vile attacco terroristico del 7 ottobre, beh allora si alimenta l’assurda fantasia di quelli che vedono i miliziani come una resistenza legittima.
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Così la decisione dei giudici della Corte dell’Aja assume una connotazione morale, ma l’etica non può essere ridotta al diritto puro e semplice. Soprattutto in tempi di guerra. Il diritto non ha vita nel caos e non può avere effetto in un conflitto in cui in palio c’è l’esistenza del popolo israeliano, e il diritto, quello si, di vivere in pace, senzarischiare ritorsioni future, mettendo una volta per tutte una pietra sopra all’odio islamista.
La decisione della Corte dell’Aja è l’ennesima conferma del fallimento del diritto internazionale e delle sue istituzioni. Alcuni giudici vogliono elevarsi a garanti dell’interesse nazionale e, come in questo caso, anche internazionale, ma remano contro la democrazia. A quanto pare non lo fanno solo in Italia.
Massimiliano Bertagna, 22 novembre 2024
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