La settimana Incom è la settimana rossa, va dal 25 aprile al 1° maggio, è la settimana Incomunista e quest’anno, raffinata com’è stata dal lockdown, val proprio la pena di raccontarla. Bando alle strumentalizzazioni, guai a chi soffia sul vento dell’odio, ci avevano ammonito gli eterni antifà, i forever partigià, le sentinelle dell’amore, i gendarmi della democrazia da balcone, Bella Ciao e antifà perenne. Oggi è la festa della concordia, oggi più che mai, soggiungevano col ditino eretto come l’asta di una bandiera cinese, bisogna ritrovare compassione e unione, sensibilità e comprensione. Davvero?
In un sabato 25 aprile da libretto rosso i militanti dell’Anpi e dintorni sono stati gli unici a poter uscire con la sola autocertificazione partigiana: li abbiamo visti a Milano come a Bologna, a Roma (sotto gli occhi indulgenti del sindaco Raggi), li abbiamo sentiti scandire Bella Ciao e l’Internazionale, abbiamo visto i loro figli giocare felici senza mascherina, abbiamo intercettato i loro slogan, minacciosi, improntati alla lotta, alla guerriglia, alla resistenza non si è capito da che, alla liberazione si è capito benissimo da chi. Non da un governo che ha fatto strame delle garanzie costituzionali (se ne vantavano fingendo costrizione Giggino Di Maio e Roberto di-Speranza, nientepopodimeno), ma dai soliti noti. Loro, gli Ur-partigiani, hanno potuto violare zone rosse, lockdown e decreti del presidente del Consiglio, hanno potuto fare, come sempre in Italia, la loro rivoluzione tascabile scortati dai carabinieri. E difesi dall’Avvenire, che ormai sembra “Lotta Continua”.
A far da corifeo, l’eterno compagno Guccini, uno che da una vita ciurla nel manico: segnalatosi nei “formidabili anni” come cantore del comunismo emiliano da ridotta, ha in seguito abiurato, come tanti, rinnegando perfino l’eskimo: “Lo portavo perché era comodo, mica per ragioni politiche”. Dopodiché eccolo a gracchiare, con mestizia da osteria, la Bella Ciao riveduta e corretta contro i soliti “invasori” d’oggi, le Meloni, i Salvini, da evacuare, colpevoli di esistere. Il compagno Guccini è sempre stato un menestrello sopravvalutato, consolazione culturale dei fanatici, ma un ottimo uomo di marketing: non fa mai le cose a caso, anche se può sembrare, vedrete che avrà qualche cimelio da immettere sul mercato, sta solo rinfocolando il target di riferimento. Dal suo romitaggio appenninico il compagno Guccini non sente il lockdown, è assuefatto e se la piglia con lo straccio di opposizione che resta, è così bello obbedire se il regime è quello giusto.
Lo dice anche il professor Revelli, figlio di capo partigiano: “Oggi il senso del 25 aprile sta nell’obbedire”. Credere, obbedire, combattere non era uno slogan fascista? Sì, ma alla bisogna torna comodo. Così si può spiegare l’uscita, davvero sfacciata, di Conte, secondo il quale “bene Forza Italia, ma esiste ancora una opposizione che non collabora”, forse sogna di abolire anche quella per decreto. Gli dà man forte la solita classe d’istrioni che susciterebbero imbarazzo perfino nel compagno Zdanov: Claudio Amendola non vede l’ora di scaricare la app Immuni “tanto a me dei dati personali non me ne frega niente”, e si può capire, poi rincara: l’isolamento va mantenuto. Per lui, magari. Il 25 aprile 2020 delle anime morte si ricorderà per queste ed altre follie, miserie e per l’immancabile profluvio di “nemici” ritratti a testa in giù, però con amore.
Si distingue nel giochino da scuola dell’obbligo partigiano qualche cuor di coniglio, retwittato da qualche altro personaggino in cerca d’autore specializzato in leccaggi di regime. Ma niente paura, in questi casi il solerte presidente dell’Ordine dei Giornalisti non si scompone, non fa una piega, mica parliamo di Feltri. E nessuna zia Botox ricorderà al nipotino che, chiamala come ti pare, lotta partigiana o fascismo, ma evocare squartamenti e impiccagioni di cadaveri di donne è sempre la stessa roba squallida. Va bene che, almeno quelle, non ti menano se ti trovano in discoteca, ma questo arditismo d’accatto è proprio (s)qualificante. Forza compagni, che il primo maggio si replica.
Difatti si replica. In tono minore, in differita, ma si replica. Cogli immancabili centri sociali, che, a Trieste, si azzuffano con la polizia (che ha l’ordine di non reagire) “in difesa del lavoro”, al quale sono più allergici ancora che alla sanificazione. Con le solite formule sindacali da triplice dei retori. Col concertone, per l’occasione concertino, in differita orchestrato da Ambra che ormai è la madrina autocertificata dei sindacati. Ce l’avessero detto 30 anni fa, quando eterodiretta dal Bonco sgambettava mormorando filastrocche lolitesco-coprolaliche, “merda, merda, merda”, che sarebbe diventata una piagnucolosa coscienza civile da settimana Incom. Coi cantanti di regime che, a pugno chiuso, elogiano la reclusione in nome della salute – e sentirlo da un Vasco Rossi davvero è il colmo. Belli, satolli, paciocconi, ritinti che dalle loro magioni ripetono: fermi, bòni, fate quello che dice il governo.
Un trionfo di conformismo e di sudditanza avvilente ma a qualcuno non basta, c’è chi, come l’attor Favino, si spinge oltre ogni limite di obbedienza: “Io resto a casa come mi dicono e farò sempre quello che mi dicono”. Artisti o burattini? Coraggio, che poi vi arruolano a Sanremo, spettacolo di regimetto. Si nasce (sedicenti) sovversivi, atipici, anarchici, rivoluzionari, cani sciolti, e si muore nel branco dei collaborazionisti, degli uomini d’ordine, degli zdanoviani in attesa dell’osso, l’importante è assecondare il potere giusto e sbraitare contro l’opposizione tirannica. Neanche si accorgono di quanto sono ridicoli, al punto che per legittimare la loro ragion d’essere in questa giornata dedicata al lavoro, col governo che vieta di lavorare, tirano in ballo le vittime del caporalato, i bambini sfruttati, roba atroce, ma che col lavoro non c’entra ed ha a che fare con tutt’altre problematiche a cominciare dallo schiavismo. Trucchi dialettici di bassa lega, guitteria sindacal-papalina.
La settimana Incomunista finisce qui ma non finisce mai perché “resistenza è sempre, ora e sempre antifà”. Nel senso di antifare, di non fare, tutti fermi, chiusi in casa, che alla vostra salute ci pensano Vasco, Ambra e Fulminacci.
Max Del Papa, 2 maggio 2020