Società

La sfida dell’AI: come evitare gli uomini-ingranaggio

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Negli ultimi tempi non si fa altro che parlare di intelligenza artificiale, elemento che sarà fondamentale nel contesto dei cambiamenti e delle rivoluzioni sul piano tecnologico presenti e futuri. Si tratta di innovazioni e cambiamenti che avvengono a velocità sempre più impressionante, impattando tutti i campi del sapere, in particolare quello del lavoro. Non senza rischi, come ha notato il Segretario dell’Ugl Paolo Capone, ricordando come recentemente «mille tra ricercatori e manager di alto livello nel campo delle nuove tecnologie, fra i quali anche Elon Musk, Steve Wozniak ed Andrew Yang, in una lettera aperta hanno chiesto una moratoria di sei mesi a tutti i laboratori che si occupano di intelligenza artificiale perché si stanno creando menti digitali sempre più avanzate “che nessuno, neanche i creatori, possono capire, prevedere e controllare” e che potrebbero costituire un pericolo per la società.

Il punto è che non tutto quello che è tecnicamente fattibile può essere fatto, che ci devono essere dei limiti e solo una sana politica, fondata su valori solidi, e possibilmente in modo bipartisan, avrebbe il potere ed anche il dovere di segnare dei confini, a tutela della comunità umana».Gli sviluppi della tecnica portano con loro non pochi rischi, in primis sul piano della “società della sorveglianza” (da Heidegger a Travers esiste un’ampia letteratura sul tema) e della perdita di socialità e diritti del lavoro.

Riscoprire la Comunità

Si tratta dunque di puntare a non ridurre gli uomini a merce e a “macchine calcolatrici”, come ammoniva Mazzini già nell’Ottocento. Servono limiti, serve una direzione precisa della collettività intesa come “comunità di destino” e non mercato sregolato. A parere di chi scrive, le innovazioni non devono essere negate ma piuttosto “cavalcate” e governate attraverso volontà, formazione e soprattutto partecipazione. Finita l’era dei “compromessi” fordista (incentrato sulla figura dell’operaio che Celine paragonava ad uno “scimpanzé” in quanto attore passivo del processo produttivo) e keynesiano, bisognerebbe dunque provare a impostare un cambio di paradigma che veda al centro la comunità e il lavoro, mettendo le “transizioni” al servizio dell’uomo.

La sfida in sintesi attiene precisamente alla creazione di un tessuto sociale in cui i lavoratori non siano meri atomi, ma persone partecipi del cambiamento, inserite in un processo di consapevolezza e valorizzazione in cui i migliori possano emergere. Non “imprenditori di se stessi” che si auto-schiavizzano per restare al passo (Byung-Chul-Han) al motto di “non avrai nulla e sarai felice” (come da aspirazioni di Davos) ma produttori che cooperano sulla scia del modello Olivetti e di un umanesimo nuovo di cui potrebbero beneficiare tutte le parti sociali. Tante esperienze concrete già si muovono in questa direzione: dallo Statuto della Persona redatto dell’Enel all’idea di “umanesimo metalmeccanico” promossa dalla Federmeccanica, passando per tanti progetti attivi a diversi livelli sul piano nazionale.

Si è arrivato anche a parlare di “umanesimo del lavoro digitale”, pur nel contesto di una realtà occupazionale complessa e piena di criticità. In questo senso, gli studi più puntuali di docenti quali Luciano Pero e Giovanni Scansani hanno messo in luce l’importanza del “lavoro di squadra” e della partecipazione dal basso a livello aziendale, spesso nata spontaneamente nei settori d’avanguardia tecnologica, trainata da dirigenti e “tecnici innovatori”. Non mancano dunque gli spunti per imprimere una svolta densa di significati, anche perché, come diceva ancora Mazzini, «nelle condizioni attuali l’operaio che senza interesse materiale o morale nei risultati della produzione non dà se non quel tanto di lavoro necessario a rivendicargli il salario pattuito, ha nella compartecipazione uno sprone a produrre maggiormente e meglio».

Innovare e partecipare

L’innovazione è un elemento sempre più centrale del nostro tempo e può essere stimolata da ambienti di lavoro comunitari, che valorizzino le persone e i territori non fermandosi alla mera ricerca del profitto ma allargando il quadro all’ambiente, alla comunità, alla Nazione, al futuro (l’impresa-comunità di cui parla Maurizio Castro nel primo numero della rivista Partecipazione). In questo quadro, la partecipazione può essere un fattore legato a doppio filo a progetti di recupero di aziende “fuggite all’estero”, nonché di soluzione delle numerose crisi industriali e freno alle costanti delocalizzazioni, come ha notato nuovamente Castro.

La globalizzazione sta mostrando i suoi limiti, guerre e pandemie fanno riscoprire l’importanza dei settori strategici, ecco allora che si può provare a limitare il “grande elettore nascosto” della finanza (come lo definiva Giano Accame) e delle grandi oligarchie economiche cinesi e americane per riportare in Patria alcuni fondamentali “pezzi” della nostro tessuto sociale così da promuovere ricerca e innovazione. Perché «non esiste progresso intelligente se non c’è una ricaduta seria e vera sul proprio territorio», come ricorda Leonardo Valle.

Questi elementi emergono in alcuni libri quali La Rivoluzione 4.0 di Mario Bozzi Sentieri e La Sfida Partecipativa di Francesco Marrara. Spunti in un dibattito sempre più necessario per capire le complessità che ci aspettano, nella coscienza che, come scrisse Gaetano Rasi, «la scienza quando è priva di una forte convinzione etica e di un impegno civile, non è vero progresso e non contribuisce al perfezionamento dell’uomo». Miriamo dunque a questo perfezionamento, l’intelligenza è tutta qui.

Francesco Carlesi, presidente Istituto “Stato e Partecipazione”, docente di Storia Contemporanea e Storia delle Relazioni Internazionali