La sinistra accademica si barrica: guai a toccare rivoli e poteri

La riforma di Anna Maria Bernini mette mano al gran caos dei ricercatori. Chi si oppone preferisce l’esercito di precari

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università Bernini

Ormai da decenni il mondo universitario non soltanto è in crisi, ma rappresenta uno dei labirinti più complessi, impenetrabili e difficili da comprendere dell’intero universo italico. Nel corso di generazioni si è sedimentata una legislazione bizantina che ha reso l’università anche una delle aree maggiormente refrattarie ai cambiamenti.

Eppure nulla gioverebbe di più allo sviluppo del paese di un sistema di istruzione superiore di qualità e siccome il centro nevralgico dell’università sono i professori, alla fine tutto dipende da loro: dalla loro dedizione, dalle loro qualità e dal loro impegno. Ma come si diventa professori? Chi vuole proseguire gli studi deve in primo luogo ottenere un dottorato di ricerca e poi giocare tutte le sue carte per diventare professore. In Italia esistono solo due figure di professori “a vita”, gli associati (seconda fascia) e gli ordinari (prima fascia) – che vengono selezionati da commissioni nazionali per l’abilitazione scientifica – ed è indubbio che chi vuole tentare la carriera universitaria deve mettere nel conto non pochi lustri di studi “matti e disperatissimi”, da un lato, e di precariato, dall’altro. In alcune materie la strada sarà più rapida, ma in generale è difficile stabilizzarsi in breve tempo.

La ministra dell’università, Anna Maria Bernini, dopo aver preso in considerazione le pratiche internazionali ha provato questa estate a metter mano e riformare un’area grigia e complessa che riguarda proprio i lunghi anni di preparazione degli studiosi. La riforma da un lato chiude il capitolo degli assegni di ricerca (borse di studio che non avevano nessuna tutela o garanzia e creavano veramente masse di precari) e dall’altro crea una serie di nuove figure contrattuali dopo il dottorato. Si tratta di un ventaglio di opportunità che naturalmente è stato subito osteggiato dalla sinistra accademica. La scusa di tale avversione è che in tal modo si cronicizzerebbe il precariato. In verità la realtà è assai diversa.

La precarietà di tanti ricercatori risulta dalla sproporzione tra le attese (i tantissimi, troppi dottorati, che creano un piccolo esercito sovraccarico di risentimento e frustrazione) e la realtà (che è dettata dalla scarsità delle risorse, oltre che dai bisogni reali dei vari settori scientifici). Il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri offre una gamma più ampia di strumenti, a disposizione degli atenei, e in questo senso crea uno spazio di libertà per le istituzioni accademiche, le quali sono chiamate a programmare nel migliore dei modi il futuro dei giovani studiosi. Le università, secondo la ministra, devono usare meglio i soldi dei contribuenti ed essere consapevoli delle implicazioni delle loro scelte. Se davvero si vuole meno precariato, bisogna essere più attenti quando si fanno promesse irragionevoli ai giovani. Spesso i dottorati sono piccolissime riserve di potere di un ordinario locale e quindi non di rado vengano moltiplicati senza ragione. Va inoltre sottolineato che il dottorato stesso non può più essere considerato un titolo che crea legittime aspettative per la carriera universitaria. Le vere prove iniziano dopo.

In breve, la riforma è l’esatto contrario di come la descrivono alcuni professori e ricercatori. Essenzialmente essa non toglie nulla e semmai aggiunge alcune nuove tipologie contrattuali, utili soprattutto per le scienze e la ricerca applicata. La figura dell’adjunct professor delineata dalla riforma, ad esempio, è ben più di un semplice contratto di insegnamento. Prefigura la possibilità di un rapporto stabile: vuoi per costruire relazioni più solide con professionisti, vuoi con colleghi che insegnano all’estero e sperano di rientrare. Di fatto è possibile coinvolgere il professore a contratto anche sulla ricerca e non solo sulla didattica.

La riforma in cantiere, dunque, non è affatto una rivoluzione e nemmeno uno stravolgimento, ma rappresenta un significativo miglioramento rispetto all’esistente. Speriamo che le chiusure a riccio di un mondo che ha fatto della conservazione il suo modus vivendi non vanifichino gli sforzi della ministra.

Marco Bassani, 30 agosto 2024

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