La sinistra di Salis e Zaki tace sul poliziotto in fin di vita

L’intellighenzia dell’integrazionismo fantasma non ha detto una parola sull’aggressione del marocchino ai danni del viceispettore Di Martino

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Salis Zaki polizia (1)

La sinistra schleiniana è sciaguratamente avvitata lungo una spirale filo o paraterroristica e Repubblica fa quello che può: oggi spara un Zaki che proprio non ce la fa a non dirsi seguace di Hamas, oggi rilancia la teppistoide Ilaria Salis, candidata per la coppia di impresari politico-teatrali Bonelli&Fratoianni, dipinta come una allucinante sorta di Gramsci in gonnella e manganello. Le circostanze non possono essere casuali, la sinistra giornalistica con le sue vanaglorie antifasciste da chat su whatsapp punta evidentemente alla provocazione, ridicola, grottesca, demenziale se si vuole, ma insistita, ma palese. Una letterina di questa prof quasi quarantenne, in una grafia più da alunna delle elementari che da insegnante di scuola superiore, in cui si vaneggiano succedanei di idee stantie del genere immaturo viziato: quando mi sono scoperta antifà, l’antifascismo naturale come bere, come respirare, come mangiare la verdura. E come pestare, possibilmente a morte, quelli che ti capitano a tiro.

Questa sarebbe la martire piegata dalla spietata detenzione ungherese? Qualche sospetto già veniva a vederla sfilare in aula cercando palesemente i fotografi, le telecamere, col sorriso da influencer del centro sociale. Agghiacciante, considerare che una così passa probabilmente le sue ore di lezione, quando libera, ad insufflare un’idea di antifascismo senza corpo, oltre la faziosità stupida, da fumettino di Zerocalcare, senza distinzioni, senza contesto o implicazioni culturali, politiche: l’antifà come categoria dello spirito, manganello in borsa e trampolino per Bruxelles. O, come dice il padre, riconvertito dal sovranismo ungherese al populismo Askatasuna, “Ilaria è icona dell’antifascismo perenne”. Una così sarebbe una martire? Non a caso, evidentemente, ieri l’altro tromboncino dell’antifascismo piramidale Zaki aveva arringato la agenzie solidarizzando, a pendolo, ora con Hamas ora con Salis; non c’è un disegno premeditato? Non c’è una tempistica perfino scoperta?

E la grafia conta, la grafologia è scienza acquisita e spietata: basta vederla, la letterina in forma di quadernino dal carcere, per capire tutto, anche ad uno sguardo profano. L’antifascismo obbligatorio, il dovere di prendere a bastonate, a mazzate quanti non riconosciuti nella koinè: succedeva già cinquant’anni fa, e, per lo più, si trattava di volgarissimi ignobili regolamenti di conti o, peggio se possibile, vili spedizioni per sgomitare nel circolo dell’antifà terroristico. Come per Sergio Ramelli, il cui cervello veniva spalmato sul marciapiede, dalle parti di città Studi, da un commando di balordi di Avanguardia Operaia, studenti a Medicina: in fama di fascista, il giovane Ramelli, ma ad esclusivo criterio di chi lo massacrava: in realtà le sue opinioni, le sue convinzioni erano quelle di un ragazzino torturato nella sua scuola, mite, isolato, che cercava una comunità, cercava disperatamente amici. E li trovava fra chi non lo cacciava. Ecco come ne avrebbero raccontato l’esecuzione i colpevoli, anni dopo: «Ramelli capisce, si protegge la testa con le mani. Ha il viso scoperto e posso colpirlo al viso. Ma temo di sfregiarlo, di spezzargli i denti. Gli tiro giù le mani e lo colpisco al capo con la chiave inglese. Lui non è stordito, si mette a correre. Si trova il motorino fra i piedi e inciampa. Io cado con lui. Lo colpisco un’altra volta. Non so dove: al corpo, alle gambe. Non so. Una signora urla: “Basta, lasciatelo stare! Così lo ammazzate!” Scappo, e dovevo essere l’ultimo a scappare.»

Nessuno avrebbe poi pagato per tanto scempio, anzi qualcuno ce lo saremmo ritrovato fra i medici regionali incaricati di osservare le misure reazionarie sotto Covid. Parliamo di Ramelli come emblema di una somma atroce ingiustizia che non si lava, come martirio, vero, di un giovane che tutto era tranne che un pericoloso fascista; e che, quando spirò dopo oltre un mese di agonia orribile, dovette pure suscitare la standing ovation del consiglio comunale di Milano, esultante, dovette sopportare l’esaltazione dei vari Dario Fo, Franca Rame e in definitiva di tutti i cialtroni e gli sciacalli dell’intellighenzia che stava nell’alone del terrorismo, organizzava le gogne destinate a sfociare in omicidi e sapeva far sparire i compari materialmente responsabili, quelli che appiccavano il fuoco o manovravano la spranga, la chiave inglese, la rivoltella. Ancora di questo si sta a parlare? Uno come Ramelli, coi suoi capelli lunghi, il suo look più di sinistra, nella sua ricerca di compagnia e di amicizia, viene odiato ancora oggi da sinistra: ma i genitori assistettero alla sua esecuzione dalla finestra, e ne morirono.

È questo che intende la improbabile Gramsci dei nostri tempi? L’antifascismo che scoperchia automaticamente la scatola cranica? Intanto, questi tetri personaggi, garruli come sono, non trovano una parola per un poliziotto accoltellato a morte a Lambrate da un farabutto marocchino in Italia da 22 anni con una scia di precedenti da pagine gialle. 5 arresti cardiaci, 70 trasfusioni, se mai si salva il viceispettore Christian di Martino ha finito comunque la sua vita, la sua attività: era giunto in soccorso di gente minacciata con un rasoio, con un coltello, e si è preso lui i fendenti. Nessuna parola da Zaki, da Salis, dall’intellighenzia di oggi che non è diversa, non è migliore di quella dei tempi di Ramelli, di Calabresi. Nessuna parola da Repubblica, dai giornali d’area. Il sindaco di Milano se ne lava le mani, ne approfitta per scaricare le colpe sul premier Meloni. La quale non merita questo e comunque tutti possono avanzarle critiche in merito ad una gestione emolliente della pubblica sicurezza, improntata a fini di mero contenimento passivo, tutti tranne il sindaco di una città lasciata fuori controllo. Ma queste sono considerazioni a margine.

Di sicuro c’è che non abbiamo bisogno di eroi come questi Zaki e Salis, non ne abbiamo bisogno in Italia. La sinistra, del Pd come delle succursali, dovrà spiegare agli italiani che di fatto sponsorizza non martiri della libertà, non icone dell’antifascismo democratico ma miseri fantocci del teppismo a prato basso un teppismo sovversivista non innocuo. La difesa a oltranza, la copertura di migliaia e migliaia di mine vaganti come il marocchino di Lambrate ricadono sulla sinistra dell’integrazionismo fantasma, dell’inclusivismo complice. Se il viceispettore di Martino ci lascia la pelle tutti taceranno, ma quel silenzio sarà anche più immondo delle letterine dal carcere delle Salis, degli Zaki.

Max Del Papa, 10 maggio 2024

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