Confesso un profondo sconcerto quando leggo, sulle più importanti testate italiane, che il governo di Giorgia Meloni stenta ancora a riconoscere il fascismo come male assoluto. Anche una persona squisita come Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche in Italia, in un’intervista a La Stampa di ieri, ha dichiarato che “Giorgia Meloni e gli altri esponenti del governo devono capire che il fascismo ha fatto cose gravissime a partire dalle leggi razziali e devono capire che è stato un male assoluto per tutte l’Italia. Giorgia Meloni ha detto che le leggi razziali sono state un abominio ma ha mancato di dire che le ha fatte un governo fascista. Le leggi non nascono da sole, qualcuno le ha volute e le ha firmate”.
Ancora una volta si chiede alla destra al governo di dichiararsi antifascista, non bastando la professione di fede democratica (che per un liberale comporta poi sia l’antifascismo che l’anticomunismo). Tra l’altro, nell’intervista, Di Segni adopera il termine “revisionismo” come “un peccato contro lo Spirito”, per dirla con Croce, ignorando che il revisionismo è l’imperativo metodologico di ogni storico serio: se i racconti del passato fossero “veri” come sono vere le leggi delle scienze naturali, che senso avrebbe sottoporli alla critica della ragione storica? In realtà, la political culture, in cui si riconosce l’intervistata – e con lei quasi tutti gli intellettuali impegnati del nostro paese – da qualche tempo ha dichiarato una guerra spietata a ogni tipo di revisionismo storiografico: ormai a dirci cosa realmente fu il fascismo sembrano essere rimasti l’Anpi e Gianfranco Pagliarulo.
La “vulgata antifascista” – da cui vent’anni fa rifuggivano anche gli storici di sinistra – è diventata una verità di Stato e persino la più alta carica della Repubblica ha messo in guardia contro la tentazione di ripetere che il fascismo ha fatto anche cose buone. È il pensiero unico che celebra i suoi trionfi e che, se fosse coerente, dovrebbe porre al bando l’Intervista sull’antifascismo che un politico e studioso comunista del calibro di Giorgio Amendola rilasciò a Piero Melograni (edizione Laterza 1976): il Secolo d’Italia scrisse che i riconoscimenti tributati al regime superavano quelli che si potevano leggere nell’Intervista sul fascismo di Renzo de Felice. Ma ormai chi si ricorda più del maggiore storico del fascismo del nostro tempo, di Augusto Del Noce, il geniale filosofo politico che alle diverse forme di totalitarismo dedicò le sue riflessioni più profonde? Chi cita più i grandi storici e scienziati politici d’oltralpe e d’oltreoceano che sul fascismo, sul nazismo, sul comunismo hanno scritto pagine fondamentali ma che oggi sembrano ignorate?
Meloni e altri esponenti della sua area politica e culturale hanno condannato le leggi razziali e l’alleanza col Terzo Reich? Per le Vestali della Liberazione non basta: avrebbero dovuto dire che quelle pagine nere del regime fascista erano iscritte tutte nel suo Dna ideologico: insomma avrebbero dovuto scavalcare a sinistra studiosi come A. James Gregor o Ernst Nolte, elaborando una teoria dei crimini commessi dai fascisti che li presentasse come effetti naturali di cause autoevidenti. Davvero una strana pretesa, questa, che riporta in auge quelle che un tempo si chiamavano “filosofie della storia”, intese come visioni del mondo in cui tutto era concatenato, tout se tient.
Sennonché le “filosofie della storia” sono un prodotto tipico dell’ideologia intesa come falsa coscienza che appende a un chiodo – il valore, o il disvalore, posto a fondamento di una politica -tutto il seguito positivo o negativo che si fa discendere da una scelta originaria o da un’idea che abbia trovato delle baionette, per dirla questa volta con Napoleone. Così per un tradizionalista doc (ce ne sono ancora) la presa della Bastiglia è all’origine del regicidio, del terrore, delle guerre napoleoniche della finis Europae. E, analogamente, per un laicista ateo e razionalista, dalla religione cristiana discendono tutte le brutture che hanno segnato nei secoli il vecchio continente: dalle crociate ai roghi dell’Inquisizione etc.. In Controstoria del liberalismo (Ed. Laterza 2005), lo storico della filosofia, il compianto, Domenico Losurdo scriveva, della tradizione di pensiero liberale, che “nessun’altra più di essa si è impegnata a pensare a problema decisivo della limitazione del potere.
Epperò, storicamente, questa limitazione del potere è andata di pari passo con la delimitazione di un ristretto spazio sacro: maturando un’autocoscienza orgogliosa ed esclusivistica, la comunità dei liberi che lo abita è spinta a considerare legittima la schiavizzazione ovvero l’assoggettamento più o meno esplicito, imposti alla grande massa dispersa per lo spazio profano. Talvolta si è giunti perfino alla declinazione e all’annientamento. È dileguata del tutto questa dialettica in base alla quale il liberalismo si trasforma in un’ideologia del dominio e finanche in un’ideologia della guerra?”. Per il marxista Losurdo non c’era nessun dubbio che razzismo e colonialismo fossero iscritti nell’ideologia liberale. Ne costituiva una riprova la storia degli Stati Uniti.” |…| La Costituzione additata come modello consacra la nascita del primo Stato razziale, mentre l’autogoverno qui osannato garantisce ai proprietari di schiavi del Sud il legittimo godimento della loro proprietà senza interferenze da parte del governo federale”. Va detto che Losurdo, uno studioso sempre molto documentato e autore di libri che si leggono ancora oggi con profitto, al di là del dissenso teorico, era molto più serio del collega antichista romano, Antonio Capizzi, che scrisse un saggio degno dell’inquisizione stalinista – il titolo dice tutto– Alle radici ideologiche dei fascismi. Il mito della libertà individuale da Constant a Hitler (Roma, Savelli, 1977) per dimostrare la continuità profonda tra il Discorso di Constant sulla libertà dei moderni comparata a quella degli antichi col Mein Kampf di Adolf Hitler.
A mio avviso, uno storico – liberale o meno che sia – non può sottoscrivere nessuna delle due interpretazioni del liberalismo ma il problema non è questo, bensì è quello di stabilire se una comunità politica, che si ispiri ai valori della società aperta debba esigere che i suoi cittadini si riconoscano nel racconto ufficiale della storia predisposto dallo stato democratico o debba limitarsi a esigere l’assoluta fedeltà alla Costituzione e codici di cittadinanza in linea coi suoi valori. Per fare un’ipotesi non del tutto irreale, se un regime comunista o un partito comunista non si accontentasse della conversione marxleninista di un cittadino già militante in una formazione democratica borghese ma esigesse da lui il riconoscimento di aver militato in passato nell’area ideologica che teorizzava e praticava lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il genocidio, la colonizzazione non sarebbe una riprova della mens totalitaria del comunismo? E se l’esaminando dicesse: lascio il mondo capitalista, borghese, liberale non perché era il male assoluto ma perché non ha mantenuto le sue promesse, non ha risolto il problema della giustizia sociale non ha eliminato lo sfruttamento del proletariato interno ed esterno, potrebbe egualmente ottenere la tessera del Pci o del Pcus?
I veri numi tutelari della ricerca storica non sono i santi dell’Inquisizione – cattolica o laica – ma i grandi scettici, come Michel de Montaigne o David Hume. Essi insegnano che la storia non è un processo necessitato in cui ogni casella, ogni momento del suo divenire, si colloca al posto giusto ma è un sistema aperto, dove può sempre accadere di tutto, dove ciò che poi accade realmente trova una sua spiegazione logica ma poteva non accadere. Quando si dice che il fascismo è il male assoluto e se ne vuol fare una verità di fede per tutti i cittadini non ci si ispira ai valori alti dell’Occidente ma all’ideologia del Grande Fratello sempre più esigente che non può certo accontentarsi della condanna senza appello delle leggi razziali e dell’esecrazione del Patto d’Acciaio che distrusse non solo le nostre città ma indebolì, forse irreparabilmente, lo stesso sentimento d’amor patrio.
Se non si dice che fin dall’inizio il fascismo fu quanto di peggio e di più pestilenziale avrebbe potuto abbattersi sull’Italia, non ci si può accostare al fonte battesimale della democrazia. Resta, pur sempre, il problema della maggioranza dei nostri connazionali che gli assicurarono un ampio consenso – a cominciare dagli intellettuali, dagli imprenditori, dalle autorità ecclesiastiche, dalla “gente meccanica e di piccolo affare”. Come va considerata? Come massa damnationis i cui residui storici attendono una bonifica integrale?
La Meloni viene da ambienti “che ci hanno creduto”, da persone che, in buona fede, videro nelle camice nere il movimento e poi il governo che salvarono il paese dall’anarchia e realizzarono non poche significative riforme sociali, facendole pagare – beninteso – con la perdita delle libertà statutarie (perdita per noi inaccettabile ma non per gli italiani del tempo, stanchi di guerre civili e di violenze, come ben riconobbero, storici non certo reazionari da Angelo tasca a Federico Chabod, da Renzo de Felice a Roberto Vivarelli). Sono proprio tenuti i ‘postfascisti’ a qualificarsi come “antifascisti“, a buttare nella spazzatura della storia idealità in cui hanno creduto in buona fede e che, semmai hanno visto tradite, a partire dalle leggi del ‘38 e dall’entrata in guerra del 1940 (le vide tradite, ad esempio, una figura di intellettuale di grande onestà e cultura come Giano Accame, amico personale di Giampiero Mughini, che pure volle la sua bara avvolta nella bandiera della Rsi)?
Non esito a dire che non potrei avere nessuna stima per Giorgia Meloni se, per compiacere l’assordante canea degli antifascisti in servizio permanente effettivo, si proclamasse “finalmente” antifascista: a parte il fatto che non convincerebbe nessuno dei suoi nemici politici – direbbero che è stata dichiarazione tardiva e imposta-, sarebbe per lei ammettere che nel fascismo storico ci sono state solo ombre e nessuna luce – nell’Erebo può dominare solo il buio pesto – e che la sua milizia politica passata è stata un’imperdonabile peccato di gioventù. Ci manca solo che si pretenda da lei, a questo punto, di prendere posizione a favore di Claudio Pavone nella durissima polemica che l’oppose al salveminiano Roberto Vivarelli, autore di un testo esemplare, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 (Il Mulino, 2013), in cui lo storico, rievocando la sua giovanile adesione alla Repubblica Sociale, la spiegava con le circostanze in cui era avvenuta, e, quel che è peggio, scriveva che non ne era affatto pentito della sua scelta.
Debbo aggiungere, però, che non avrei nessuna stima, altresì, di un dirigente o di un intellettuale di sinistra che oggi si definisse anticomunista. Il comunismo, come ormai è acclarato, fece più vittime del nazismo e di ogni altro regime golpista della storia contemporanea messi insieme, ma perché non riconoscere a quanti hanno creduto nelle sue “promesse” una buona fede, attestata, tra l’altro, dalla disponibilità a dare la vita per la “causa”, a sacrificare una tranquilla vita borghese in difesa di idealità nobilissime, come l’eguaglianza e la giustizia sociale? Dovrei chiedere ai tanti amici comunisti, che ho conosciuto, frequentato e apprezzato per il loro impegno civile, di considerare il “socialismo reale” come l’altro male assoluto del XX secolo, come riteneva il presidente Reagan? Il pensiero egemone, in Italia, per citare i versi di Trilussa, sta “sprecanno troppe cose belle in nome della fede”: forse è il segno inequivocabile della nostra decadenza.
Dino Cofrancesco, 22 aprile 2023