Non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt o altri illustri pensatori per rendersi conto che dietro il diritto ci sono, e sempre ci sono stati e saranno, concreti rapporti di forze, relazioni di potere, ideologie. La scommessa della civiltà giuridica liberale è stata quella di pensare che, attraverso un bilanciamento dei diversi poteri, si potesse dar vita ad un’idea di giustizia accettabile, in cui, per dire, tutti i cittadini potessero riconoscersi.
Potere politicizzato
Questo ideale è purtroppo, almeno da mezzo secolo, continuamente infranto in Italia da un potere giudiziario che, in ogni suo ordine e grado, si è sempre più politicizzato; e, nello stesso tempo, non è più controllato, per debolezza o corto interesse di bottega, dal potere politico (e quindi democratico) e se del caso da esso limitato.
Ad occhio, direi che la politicizzazione, essendo avvenuta a senso unico o quasi (cioè con lo sguardo rivolto a sinistra), va messa nel conto di quella “egemonia culturale” gramsciazionista che, iniziata subito dopo la Seconda guerra mondiale, poi è stata per molti aspetti rafforzata dal lungo Sessantotto italiano. Basti pensare che, in barba ad ogni principio di terzietà, una corrente di punta della magistratura si costituì negli anni Settanta con l’intenzione di interpretare la legge in senso sostanzialistico e creativo in modo da contribuire al processo di costruzione di una “democrazia progressiva” (sic!). Vista in quest’ottica di lungo periodo, si capisce forse la ratio di certe decisioni della magistratura che appaiono sproporzionate, cozzano contro il buon senso, offendono le famiglie delle vittime (che non chiedono vendetta ma solo giustizia) e contribuiscono a creare quella sfiducia verso lo Stato che è causa ed effetto del nostro declino.
Il caso del ghanese che uccise a picconate
Ultima in ordine di tempo, è arrivata la notizia che la Corte di Cassazione ha chiesto un ulteriore sconto della pena (che già era stata ridotta da 42 a 28 anni) per il pluriomicida ghanese Kabobo, che nel 2013 aveva ucciso a picconate tre innocenti passanti (e altri due ne aveva feriti) nel centro di Milano. Nella sentenza dei giudici di appello è scritto che “Kabobo uccise per rancore e sfinimento per le sue esperienze di quotidiana lotta per la sopravvivenza” e perché aveva affermato di “sentire delle voci” (arisic!) che era chiaro sintomo di squilibrio mentale. Come non vedere in queste parole le classiche giustificazioni marxiste tipo: “è tutta colpa della società”; oppure “non era in grado di capire e volere”?
Fatto sta, che la civiltà liberale si fonda proprio sul concetto di responsabilità individuale, e quindi sull’imputazione all’individuo in quanto tale della responsabilità morale e penale delle proprie azioni. Se poi a tutto questo aggiungiamo il fatto che Kabobo è arrivato in Italia da clandestino, sbarcando a Lampedusa, tutti i fili sembrano annidarsi per farne il perfetto paradigma della vittima di un “disagio” che va “risarcito”. Fra l’altro, in questo modo di pensare viene ad infrangersi anche il principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.