È una sera di fine agosto, di quelle che dovrebbero segnare un momento piacevole, invece ne esce un piccolo incidente diplomatico. A cena con un vecchio amico e la sua compagna, che è ucraina, si finisce per forza a parlare della guerra o meglio invasione. Un terreno minato, perché anche il mio ex compagno di scuola, forse per osmosi, si è trasformato nel più tetragono sostenitore della causa e non vuol sentire ragioni, come la sua amica, che si irrigidisce: sto tentando di argomentare, infatti, che, per quante ragioni abbiano, gli ucraini dovranno per forza arrivare a una tregua stabile e per arrivarci dovranno giocoforza sacrificare qualcosa: perché un conto è avere ragione, un conto è avere le forze.
Niente da fare: la signora, visibilmente incazzata, mi sibila soltanto “noi non ci arrenderemo mai, con Zelensky fino alla vittoria”. Auguri, rispondo, ma la vittoria non potete pretenderla dal mondo intero e non potete farla pagare al mondo intero: Zelensky chiede, chiede, ma i suoi alleati non ne possono più e forte è il sospetto che non sia lui a sacrificarsi per il suo popolo, ma a sacrificare il popolo per le sue deliranti ambizioni. Fa caldo, è una sera afosa, ma cala in gelo. La gentile signora non mi rivolgerà più la parola, l’amico diplomaticamente abbozza qualche concessione dialettica e poi finiamo per parlare d’altro. Lei smania per portarlo via, sono un nemico, un invasore. Tre mesi dopo il mondo si è stufato di Zelensky il quale di botto fa i conti con la realtà: c’è un’altra guerra, la sua è retrocessa all’attenzione globale, la resa dei conti in Ucraina è partita nel momento stesso della mattanza del 7 ottobre a Gaza, già spunta chi vuol far fuori l’ex intrattenitore concedendo parte dei territori già persi, intorno al 20%: non è solo il cinismo del potere, è il realismo che prima o poi s’impone.
Così va sempre a finire, non esiste tregua o pace con qualche compromesso che scontenta tutti ma preserva dal macello infinito. Il capo ucraino è di quelli al posto sbagliato nel momento sbagliato della Storia: l’impatto con la realtà non gli ha fatto bene, lo ha scaricato nella paranoia, nella sindrome del bunker: c’è un totale rifiuto di fare i conti con le cose, e la reazione è sempre la stessa: epurazioni, implosione, cinghia alle libertà democratiche. Nessuno sottovaluta la situazione di un capo di uno Stato invaso e martoriato, ma ci sono altri aspetti da considerare. Uno è la comunicazione.
Diamo per scontato che (anche in Italia) il partito dei putinisti sia folto, anche più di quanto non appaia (e a me piacerebbe molto se uscissero certi bonifici di cui si mormora da tempo sui soliti più o meno noti, evidentemente abbiamo un governo più garantista di quanto questi soliti sostengano; ma insomma chi sta a libro paga è evidente, se non certificato). La disinformazione russa, di stampo sovietico, è la più attrezzata del mondo, ma non ha giovato neppure una narrazione ufficiale tesa a venderci Zelensky come un vaccino: coraggioso, disinteressato, impossibile da non sostenere, anzi da non assumere. Non sostenere Zelensky era avallare le atrocità zariste, criticarlo era rendersi complici di quegli stessi crimini, punto e basta. Molti, sempre più hanno preso ad irritarsi, non necessariamente arrivando al punto da gettare il bambino con l’acqua sporca, da inneggiare a Sansone, cioè l’Occidente, che muore coi filistei.
Non ha giovato neppure la strategia influencer, quel saltabeccare per eventi mondani, festival del cinema o canterini, copertine di riviste patinate, la moglie, le ville italiane, la corruzione, l’arroganza sempre più spinta: di governanti che chiedono l’aiuto del mondo civile, di fronte a una guerra, un genocidio, è lastricata la Storia, ma è forse la prima volta che se ne sentiva uno pretendere e rilanciare, sempre, senza limite, quasi fosse lui a fare un piacere a chi lo sostiene. Non poteva durare. Anche senza arrivare agli eccessi di chi lo odia, e gli attribuisce attitudini cocainomani, ce n’era abbastanza per saturare anche il più ben disposto dei sostenitori.
Zelensky ha forse contato troppo sul suo ruolo di sentinella dell’avamposto occidentale, se crollo io crolla il mondo; ieri il Giornale ha riportato un lungo intervento di Mike Pompeo, segretario di Stato con Donald Trump: vi si ribadisce la necessità, quasi la fatalità di sostenere Zelenzky, dunque l’Ucraina (o il contrario?) a qualunque costo, per le note ragioni che tracciano connessioni con la situazione di Gaza, oggi, e il ruolo di Putin con alle spalle la Cina, l’Iran… Che il mondo sia un pentolone malefico in cui tutto ribolle è cosa storicamente nota, ma non è detto che la medicina per digerire l’intruglio debba essere sempre la stessa. Gli scenari cambiano, i rapporti di forza cambiano.
Qui c’è una variabile terribilmente banale: l’Europa, l’Occidente, non hanno più soldi da versare per una guerra che così non finirà mai e che non si vuole finisca se non con un definitivo quanto impossibile trionfo “fino all’ultimo uomo”. Inoltre è un mondo dominato dalle impressioni, dalla proiezione mediatica, social, se uno è simpatico, pur avendo tutti i difetti e le colpe di questo mondo, la spunta. Pare strano, pare incredibile, ma va così. Zelensky il suo capitale di immagine se l’è giocato, non vuole capirlo, e si rinserra e si ostina. Paventa un colpo di Stato e qui la paranoia sprizza barlumi di lucidità: se succede, e prima o dopo, ma più prima, succede, è perché gli alleati lo hanno mollato: l’ammutinamento è sempre una conseguenza, a un certo punto. Non parte da dentro. L’Ucraina è un Paese invaso e martoriato, ma il suo padrone era l’uomo sbagliato; e il fanatismo da “fino all’ultimo uomo” di un popolo intero non ha giovato. Pur avendo tutte le ragioni, si esce dalla tragedia con la ragione, non sacrificando la ragione per prima.
Max Del Papa, 19 novembre 2023