Giorno 1

La traversata atlantica, un viaggio dentro se stessi

Il catamarano lascia il porto di Capo Verde. La pesca fortunata e il rumore delle onde: essere in mezzo al mare è come andare dallo psicologo

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il diario di Tia

Il mio amico Tia, un ragazzo italiano che ha tanta voglia di fare e che tanto fa, ha deciso di prendersi una pausa. Così si fa. Non è una questione di poterselo permettere, è questione di volerlo. Quindici giorni solo lui, un paio di colleghi di avventura e la traversata atlantica in mare. In questo diario ci regala le sue sensazioni. Non siamo con lui in barca, ma ogni giorno è un po’ come se lo fossimo.


Traversata Atlantica

Essere in mezzo al mare è un po’ come andare dallo psicologo. Con una differenza: sei tu a restare in silenzio e lui a parlare. Ma il mare, a differenza di uno psicologo, non ti giudica e custodisce tutto ciò che gli confidi.

Quando parlo con uno psicologo, alla fine, le risposte le trovo dentro di me. Le abbiamo già tutte, anche se a volte facciamo fatica a riconoscerle, ad ascoltarle o più semplicemente, ad accettarle. E così, in mezzo al mare, mentre lasci andare le tue paure e le tue ansie nel silenzio, guardando l’orizzonte, le risposte arrivano. Arrivano chiare, semplici, come se fossero sempre state lì. Nel frattempo, respiri iodio, ti abbronzi, e tutto questo senza spendere nulla.

Ma quando passi troppo tempo in mare, tutto cambia. Non sembra più di essere dallo psicologo, ma in una clinica psichiatrica. È come se un intero team di psicologi fosse lì ad osservarti giorno e notte, aspettando che i tuoi demoni emergano.

Vorresti scappare, liberarti da una camicia di forza invisibile e scomparire oltre l’orizzonte.

Essere in mare per tanto tempo è come guardarsi in uno specchio che riflette la tua anima. La vedi riflessa nelle onde, che si ripetono all’infinito.

Penso che chi viaggia per mare, in realtà, viaggi dentro se stesso. L’orizzonte infinito ti costringe a esplorare le parti più nascoste e dimenticate di te. Luoghi che non visitavi da anni, dove i colori e le emozioni sembrano cambiati, forse meno splendenti, ma che aspettano solo di essere riscoperti.

Più rimani lì, più i colori si accendono, le emozioni si intensificano, e capisci che quei luoghi non sono mai cambiati: è cambiato solo il modo in cui li guardavi.

L’anima è un luogo per navigatori esperti.

Le tempeste sono frequenti, come nei mari del grande sud, e i venti favorevoli rari. Ma quando trovi l’aliseo giusto, il vento che gonfia la tua vela, tutto cambia. La vita inizia a scorrere, fluida e potente, come una barca spinta da un vento sicuro e costante.

Un vento che, soffio dopo soffio, ti guida sempre più vicino al tuo porto sicuro.

Giorno 1 – Petit Pays

La sveglia non suona. Ero convinto che il mio compagno di cabina e amico, Lucas, l’avesse impostata. Sempre preciso, quasi maniacale, ma anche questa volta il detto “chi fa da sé fa per tre” si rivela azzeccato. L’ultima notte in porto, senza il rumore delle onde che si infrangono con forza sullo scafo della barca, è preziosa.

A svegliarci, però, è il motore del nostro catamarano, che ci fa saltare giù dal letto alle 5:30 del mattino. Il comandante era stato chiaro: appuntamento alle 5:00, tutti pronti per aiutare con la manovra. Non proprio un inizio impeccabile.

Sbarca una ragazza, pronta a tornare a casa dopo aver portato la barca dal Mediterraneo fino a Capo Verde. Poi, finalmente, si parte. L’alba ci saluta con la promessa del mare aperto e il primo respiro della traversata.

Eravamo a terra da tre giorni. Siamo arrivati a Capo Verde dopo cinque giorni di mare da Tenerife. Mi avevano descritto Mindelo come una piccola Havana, piena di musicisti di strada e di gente che balla ovunque. Per quei cinque giorni in mare ho immaginato, sognato, idealizzato l’arrivo a Capo Verde. Ma la realtà è stata una piccola delusione. I cantanti di strada sono rari, e chi balla non c’è. L’affresco di Cesária Évora, scolpito sulla facciata di un palazzo diroccato, guarda la sua gente, la sua isola, il suo Petit Pays.

Il porto è affollato. È in preparazione una regata transatlantica, l’ARC, alla quale noi non partecipiamo. In sostanza, si paga una quota (piuttosto elevata) per ogni persona a bordo, e il comitato si occupa di organizzare i posti in porto e, soprattutto, di fornire assistenza durante tutta la traversata. L’età media dei partecipanti è piuttosto alta, d’altronde ci vogliono tempo e risorse per concedersi il lusso di “perdere” settimane attraversando un oceano.

A 36 anni, mi rendo conto di quanto sono fortunato a essere qui, a vivere un’esperienza che per molti resta un sogno lontano.

Tante piccole barche, perfettamente allineate, incollate le une alle altre. I moli del porto somigliano a strette calle veneziane in una sera di primavera, piene di turisti. I carrelli della spesa si fanno strada tra la folla, e le piccole imbarcazioni si trasformano in supermercati dei mari. È incredibile quante cose possa contenere una barca.

Anche noi ci siamo riforniti. Una piccola spesa, il pieno nei due serbatoi da 1.200 litri ciascuno, più una tanica extra sulla coperta della barca con altri 1.000 litri. Se dovessimo andare solo a motore, questo carburante ci basterebbe per cinque giorni di navigazione. Ma è inutile dirlo: Eolo dovrà essere dalla nostra parte. Avevo visto abbastanza di Capo Verde e della terraferma. Basta, volevo ritrovare il mare.

La manovra in porto è da manuale. Fred, il nostro comandante, con una precisione chirurgica fa danzare il nostro catamarano di 77 piedi e 80 tonnellate come fosse una piuma. La barca esegue un giro di 180 gradi su se stessa, sfiorando le altre imbarcazioni ancora addormentate a prua, per poi uscire senza fare rumore. Come chi parte presto al mattino, in punta di piedi e non vuole svegliare chi dorme accanto.

Usciamo dal porto alle prime luci dell’alba. La terra si allontana per l’ultima volta, avvolta nella nebbia del mattino. Non la vedremo più per almeno dodici giorni, vento permettendo. Armiamo la randa e il genoa, prua verso ovest (275 gradi). Si parte.

Metto Sultans of Swing dei Dire Straits a tutto volume, una colonna sonora importante della mia vita. Era una delle canzoni preferite di mia madre. Così, in qualche modo, è come se la facessi salire a bordo con me in questo viaggio. Lei che amava così tanto il mare. Questa traversata è anche un modo per sentirmi più vicino a lei. Sognava di vivere in barca, e da piccoli ci raccontava che avrebbe voluto crescere me e i miei fratelli a bordo di una barca a vela, per scoprire il mondo come vagabondi dei mari.

Ogni volta che guardo il mare, so che lei è qui con me. Le sue ceneri le ho disperse tra le onde dell’Escalet, in un ventoso giorno di marzo del 2010. Due giorni fa era il suo compleanno. Avrebbe compiuto 71 anni.

Il vento è a poppa, costante, un vento caldo che soffia a una media di 17 nodi. Anche la nostra velocità si stabilizza: viaggiamo a 7,5 nodi. Per raggiungere la Martinica in 12 giorni, dobbiamo percorrere almeno 170 miglia ogni 24 ore. Possiamo fare di meglio. Fred ci dà il segnale per armare il gennaker.

Io e Lucas lo srotoliamo dalla sua custodia. È pesante: ben 336 m² di vela in dyneema. Una volta issato, si gonfia con eleganza, maestoso, e subito sentiamo la barca accelerare dolcemente. Ci stabilizziamo su una velocità di 10 nodi, un bel ritmo per un’imbarcazione così pesante.

Intanto, l’esca della nostra canna da pesca è già in acqua, trainata a una velocità che, probabilmente, è troppo elevata per attirare qualsiasi pesce anche il più famelico. Stamattina, complice la sveglia approssimativa, mi sono infilato la t-shirt al contrario. Si dice che porti fortuna, e così la lascio così: la scaramanzia non è mai troppa quando sei in mare.

Quando ho lasciato Milano, ho riempito la valigia quasi solo di viveri: guanciale, pomodori pelati, pecorino e parmigiano. È proprio vero, puoi portare un italiano lontano dall’Italia, ma non puoi togliere l’Italia da un italiano.

Io e Lucas ci offriamo di cucinare, una carbonara. Il resto dell’equipaggio approva (giustamente) con entusiasmo il menù del giorno. Cucinare è un’arte. Ma cucinare in barca, con onde di tre metri, è uno sport.

Il risultato è, modestamente, ottimo. Sarà che siamo in mezzo all’Atlantico, ma il sapore di casa non è mai stato così buono. Il silenzio a tavola è assordante, rotto solo dal rumore delle onde. È un buon segno: il nostro piatto è stato apprezzato.

Giusto il tempo di finire il bis di pasta, ed ecco che il mulinello della canna da pesca inizia a cantare.
Forse il vento, leggermente calato, ha abbassato la nostra velocità, rendendo l’esca finalmente appetibile. Ma credo di sapere il vero motivo della nostra fortuna: la t-shirt al contrario, la scaramanzia non costa nulla, e nel dubbio, è sempre meglio affidarcisi.

Iniziamo il recupero. La nostra cena è servita prima ancora di aver finito il pranzo: un Mahi Mahi, una lampuga di 4 kg. Appena imbarcato, il pesce è uno spettacolo: dorato sui fianchi, con macchie blu elettrico. Questa sera lo degusteremo in tartare, più fresco di così… impossibile.

Nel pomeriggio, ho insegnato a Fred a giocare a backgammon. Strano che un marinaio esperto come lui non conoscesse un gioco così legato, storicamente, al mondo marittimo. Giochiamo una partita dopo l’altra.

Il backgammon è un po’ come la vita. Se pianifichi le tue mosse con attenzione, puoi andare incontro a cose belle; se invece le affronti con leggerezza, ti esponi a eventi meno piacevoli. Ma, in entrambi i casi, non sei mai al riparo da un colpo di fortuna – o di sfortuna – che può stravolgere tutto, in bene o in male.

Diciamo che a backgammon gioco molto meglio di quanto pianifico o affronto il gioco della vita. Qui conosco le mosse, so cosa fare, quando rischiare e quando no. Ho fiducia in me stesso, nelle mie capacità.

Nella vita quotidiana, invece, è tutta un’altra storia. Non conosco le mosse, provo colpi azzardati senza sapere il perché, senza strategia.
Ma, soprattutto, mi manca la fiducia in me stesso. Uno può sbagliare, ma almeno dovrebbe sbagliare credendo in ciò che fa. Io, invece, di solito sbaglio senza convinzione, senza crederci davvero, non sapendo dove sto andando e cosa stia facendo. Però a backgammon non c’è partita. 62 a 30 per me.

Il tramonto di oggi non è tra i più spettacolari. Il sole è timido, nascosto dietro le nuvole. Non incendia il cielo come nei giorni passati. Sembra quasi che anche lui, ogni tanto, si stanchi e decida di ritirarsi in silenzio, senza clamore, per riposare.

La cena è breve, ma il nostro Mahi Mahi è davvero squisito. Dopo cena, accendo la televisione per seguire la partita del Modena. Grazie – o forse dovrei dire per colpa, a seconda dei punti di vista – del signor Musk e della sua tecnologia, riusciamo a guardarla come se fossimo allo stadio. Anche la rabbia per il pareggio del Cosenza, dopo due occasioni clamorosamente sprecate dal nostro attaccante, è la stessa che si vive sugli spalti, tra i nostri tifosi.

Fred ci comunica il nostro turno di guardia: dalle 4 alle 6 del mattino. Sarà così ogni giorno, per una settimana. Ci spiega i dati da tenere d’occhio: la velocità del vento apparente, la rotta e, soprattutto, l’attenzione all’AIS, il radar di bordo. Ogni barca che appare deve essere registrata, con posizione e nome. In caso di emergenza, sapere chi è più vicino potrebbe fare la differenza.

È ora di riposare prima di svegliarci per il nostro turno di guardia.

Questa volta la sveglia la metto io.

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