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La vera balla del debito pubblico

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Secondo i dati diffusi il 16 novembre 2020 da Banca d’Italia, il debito delle Amministrazioni pubbliche italiane, al 30 settembre 2020, è salito a 2.582,6 miliardi di euro; di questo, la parte detenuta da Banca d’Italia è pari a 529,4 miliardi di euro (ossia il 20,5%).

Se si considera che al 31 dicembre 2019 il debito era pari a 2.409,9 miliardi di euro e la parte detenuta da Banca d’Italia 405,5 miliardi di euro (ossia il 16,8%), si evince come, in questi primi nove drammatici mesi del 2020, il debito è cresciuto di 172,6 (+ 7,1%) miliardi di euro e la parte di esso detenuta da Banca d’Italia di 123,9 miliardi di euro (+ 30,5%).
Bastano questi numeri a far comprendere quanto significativo sia il supporto che il sistema delle banche centrali sta dando agli Stati europei, mediante politiche monetarie espansive, seppure con la modalità indiretta dell’acquisto dei titoli di Stato sui mercati secondari (essendo la sottoscrizione diretta vietata dall’art. 123 del Tfue).

Avere il 20,5% del debito pubblico in mano alla propria Banca Centrale significa, nella sostanza, non pagare gli interessi su quella parte di debito (perché rientrano in larghissima parte sotto forma di dividendi che la Banca Centrale eroga al Tesoro), oltre che pagarne meno sulla restante parte (perché gli acquisiti di titoli della Banca Centrale consentono di mantenere elevata la liquidità dei titoli e quindi consentono di praticare tassi più bassi nelle offerte ai sottoscrittori).

Ci si potrebbe chiedere che senso ha dare vita a questo giroconto e perché non procedere direttamente alla cancellazione dei debiti pubblici in mano al sistema delle Banche Centrali, come del resto recentemente proposto persino dal Presidente dell’Europarlamento, David Sassoli.
Resterebbero solo i debiti pubblici corrispondenti a creditori diversi dal sistema delle Banche Centrali.

Quanto precede comporterebbe la cancellazione dei corrispondenti titoli iscritti negli attivi delle Banche Centrali Nazionali e della Bce, ma non produrrebbe il loro fallimento se accompagnata da corrispondenti azzeramenti dei debiti verso la Bce iscritti nei passivi delle Banche Centrali Nazionali e, a monte, dei debiti per allargamento temporaneo della base monetaria iscritti nel passivo della Bce.
Questo ovviamente implicherebbe, però, la trasformazione, per corrispondente importo, dell’ampliamento della base monetaria da temporaneo (cioè come debito da cui si deve rientrare a scadenza) a definitivo.

In altre parole, a stock di ricchezza invariato, si avrebbe un aumento del numero di unità di misura di quella sottostante ricchezza, cioè la moneta, con quel che ne consegue in termini di riduzione del valore unitario della moneta stessa, ivi compresa quella già in circolazione e in possesso di tutti i soggetti diversi dall’unico che, da questa operazione, beneficia di un vantaggio “concentrato” di gran lunga superiore allo svantaggio “spalmato su tutti”: lo Stato.
L’attribuzione delle politiche monetarie ad autorità che siano diverse e indipendenti da quelle che governano lo Stato e lo strumento del debito pubblico, per dare luogo, all’occorrenza, a doverose politiche monetarie espansive da parte dello Stato, senza però incidere in modo irreversibile sulla ricchezza finanziaria privata dei cittadini, costituiscono presidi legittimamente invisi a chi, non disponendo di ricchezza finanziaria alcuna, vede nella monetizzazione del debito pubblico soltanto opportunità e nessun rischio.

Da questo punto di vista, è abbastanza fisiologico che questo tipo di scelte possano esercitare un certo fascino in quegli ambienti politici la cui visione affonda le proprie radici storiche nella difesa del proletariato, piuttosto che della piccola e grande borghesia.
È invece alquanto patologico che questo tipo di scelte possano esercitare il medesimo fascino su chi possiede qualche risparmio da parte e su chi afferma di voler fare gli interessi del ceto medio e produttivo di una determinata comunità nazionale.

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