La riforma dell’autonomia differenziata regione per regione pone al centro dell’amministrazione l’istituto regionale. Intorno a questa riforma si sta consumando, forse, l’ennesimo caso del governo presieduto formalmente dal professor Giuseppe Conte e rappresentato sostanzialmente dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e dal ministro del Lavoro, Luigi Di Maio. Le regioni guidate dalla Lega – il lombardo-veneto – chiedono maggiori competenze rispetto a quante il M5s ne voglia realmente riconoscere e trasferire. Nei prossimi giorni si vedrà come andrà a finire. Qui, invece, vorrei porre un’altra questione che risponde a questa domanda: a quanti livelli di governo dobbiamo sottostare?
Le regioni, assumendo altre competenze amministrative e sommandole a quelle che già hanno, sono a tutti gli effetti degli Stati regionali. Così abbiamo che lo Stato, con il ministero centrale, è il primo livello di governo. La Regione è il secondo livello di governo. Quindi c’è ciò che rimane delle Province che è il terzo livello di governo e, dulcis in fundo, il Comune che è il quarto livello. Ad ogni livello di governo corrisponde un livello di tassazione. Per tutto il periodo della Seconda repubblica, che è sfociato senza soluzione di continuità nella Terza repubblica, si è imposto il dogma dell’autogoverno secondo il quale avvicinando il momento governativo al cittadino sarebbe aumentato il controllo, migliorato il servizio e diminuita la tassazione.
Oggi sappiamo, sulla base dell’esperienza e non dell’ipotesi teorica, che non è così. Anzi, può accadere perfino il contrario: il controllo diventa clientela, il servizio peggiora e le tasse non solo aumentano ma si moltiplicano pure. In questo modo, l’autonomia regionale, in quanto raddoppia il livello di governo, altro non è che una forma periferica di statalismo. Il regionalismo italiano è, a conti fatti, lo smembramento dello Stato centrale e la creazione di venti Stati regionali (incluse o escluse le regioni a statuto speciale, fa poca differenza). Le regioni, dal giorno in cui sono venute al mondo, sono la vera causa della crescita del debito pubblico italiano. La vera autonomia, dunque, non è l’autonomia delle regioni ma l’autonomia dalle regioni. Insomma, la loro fine.
Illusorio? Può darsi. Tuttavia, non è un’illusione il fatto storico e politico-amministrativo che dal regionalismo italiano non dipenda alcun miglioramento della vita civile ed economica del Paese. Infatti, è storicamente accertato che proprio con la nascita delle regioni si innesca al Sud un processo di “nuovo feudalesimo”, mentre al Nord la crescita sociale e imprenditoriale non avviene grazie alle regioni bensì nonostante le regioni. Quella che si chiama autonomia, infatti, altro non è che la creazione di nuova burocrazia che per mantenersi crea nuova tassazione che grava inevitabilmente su imprese, famiglie, lavoratori.