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La vera riforma è la fine delle regioni - Seconda parte

L’autonomia non può essere l’autonomia della burocrazia, sì, piuttosto, l’autonomia rispetto alla burocrazia che, sia statale o sia regionale, sia centrale o sia periferica, entra in un campo di azione e di scelte e di servizi nei quali non deve entrare. L’esempio della scuola – che nella riforma è uno dei nodi del contendere –  è illuminante: le regioni chiedono ciò che già hanno dal momento che le scuole sono già governate dall’ufficio scolastico regionale che ha sostituito quello che un tempo era il Provveditorato agli studi che insisteva su base provinciale. Le regioni chiedendo la competenza scolastica altro non farebbero che aggiungere un ulteriore livello di governo usando inevitabilmente la stessa burocrazia amministrativa, senza riuscire a migliorare un servizio la cui qualità non dipende dall’amministrazione ma dalla libertà della scuola che in Italia nessuno chiede, nemmeno gli insegnanti.

L’Italia – sia il Nord delle imprese sia il Sud delle clientele –  non ha bisogno di aumentare bensì di diminuire i livelli di governo. Il regionalismo, in qualunque modo sia concepito, è un vicolo cieco che a parole dice di voler uscire dallo statalismo ma nei fatti lo potenzia portandolo alle estreme conseguenze. Il regionalismo è la malattia senile dello stato italiano che invece di dimagrire ingrassa, si gonfia, cresce schiacciando proprio l’autonomia d’impresa, della società, della cultura.

Come se ne esce? Tornando indietro. È una posizione in controtendenza, certo. Ma sapere quando tornare indietro per custodire proprio autonomia e libertà è uno dei doveri della classe politica. L’Italia è nata superando il regionalismo e oggi sappiamo che con il regionalismo – che, ripeto, non semplifica ma complica e aumenta le tasse – è destinata a finire. Una classe politica avveduta ritorna sui suoi passi.

Giancristiano Desiderio, 22 luglio 2019

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