Nicola Zingaretti è un po’ come quei travet che vanno sempre di corsa, trafelati, ma arrivano sempre in ritardo, quando i giochi sono fatti. Paurosi della loro stessa ombra, incapaci di iniziativa, perdono il treno che gli passa sotto il naso e del cui arrivo in stazione non si erano nemmeno resi conto. Un anno e mezzo fa, ai tempi del Papeete, il nostro avrebbe avuto l’occasione d’oro di sbarazzarsi di Matteo Renzi e soprattutto della nutrita pattuglia dei suoi famigli che gli impedivano, di fatto, la leadership nel partito di cui era segretario.
A chi più di lui, insieme a Matteo Salvini, sarebbe convenuto andare alle urne? Il nostro subì allora l’iniziativa di Renzi che di fatto riportò i democratici al governo, seppure a costo di sconfessare tutte le solenni promesse antigrilline fatte dal solerte segretario fino a pochi giorni prima. D’altronde, la voglia di potere e di poltrone, fra cui quelle delle partecipate in arrivo, era troppo forte per lasciarsela scappare. E pazienza che le si sarebbe dovute dividere con l’odiato senatore semplice di Rignano! Il quale, non passano dieci giorni e si fonda il suo partito personale. Il nostro, a quel punto, avrà pensato che era fatta: il Pd era finalmente tutto suo! E avrà pensato anzi che in verità non il partito ma tutto il governo era nelle sue mani, essendo i grillini in uno stato confusionale e Giuseppe Conte un “senza partito”. Pagare qualche piccolo prezzo alla demagogia pentastellata, tipo il sì al referendum bilanciato però da una legge elettorale promessa ma che non è mai arrivata, come Parigi, valeva bene una messa! Senonché dici sì oggi e dici sì domani, complice pure la pandemia, il Pd ha cominciato a dare tanto e a ricevere poco, con Conte che ha avocato a sé quei “pieni poteri” che Matteo Salvini aveva solo metaforicamente e incautamente evocato.
Zingaretti, in sostanza, ha detto e si è contradetto, ha giocato sempre di rimessa, è stato poco convincente quando bluffando ha minacciato le urne che non voleva. Fino alla scelta suicida, nella recente crisi, di legarsi mani e piedi a Conte, seguendolo nella sua azzardata ricerca di “responsabili” che ha di fatto trasformato il parlamento in un suk arabo. Apostrofato Renzi come “irresponsabile”, prima osteggiato con solenni giuramenti di “mai più” e poi corteggiato, il fratello di Montalbano non si è accorto che per Conte era finita e che il presidente della Repubblica guardava ormai a tutt’altra parte. Renzi intanto metteva tutti i puntini sulle i che i dem non avevano avuto il coraggio di mettere con Conte e i grillini. E in più, fra il giubilo anche dei suoi ex compagni, umiliava non solo il premier ma anche il suo ex segretario.
Costretto nel giro di poche ore all’ennesima palinodia, il fantozziano segretario ha concluso la giornata di ieri scaricando Conte, e proponendosi come il facilitatore verso i recalcitranti grillini di una convergenza su Draghi che al momento è ancora tutta da verificare. Nel partito di Togliatti, forse il povero Nicola avrebbe fatto la fine che fece un giornalista de “L’Unità”: messo per burla a voltare l’acqua negli scantinati della redazione de per permettere che essa, gli fu detto “si solidificasse” (sic!).
Corrado Ocone, 3 febbraio 2021