Intanto cominciamo col dire: che noia, che stanchezza questa Italia che non cambia, abbarbicata al suo peggio, le risse tra fasci e compagni come cinquanta, sessanta anni fa e per le ragioni deliranti di cinquanta sessanta anni fa, oggi più deliranti perché è passato mezzo secolo e il mondo è o dovrebbe essere cambiato, un altro pianeta, un altro mondo. Invece eccoli lì ancora e coi medesimi pretesti infantili, chi ha cominciato prima, chi ha provocato chi. Che uno li vede e si ritrova scagliato nella sua adolescenza di liceale agnostico, né coi fasci né coi compagni, a osservarli mentre si provocano, si sfidano – chi ha provocato chi? – infine si rotolano in terra in una gran nuvola di polvere e di insulti come nei fumetti, testate, mazzate e calci in bocca come nei telefilm americani del neoconsumismo fantasmagorico.
Scuola, vige l’egemonia gramsciana
Anche allora le cose andavano allo stesso modo, l’egemonia gramsciana dei compagni nelle scuole, alle assemblee, che di solito bastava a intimidire gli altri con la scusa della democrazia, ma se gli altri, a loro volta invasati, imbevuti di sottocultura vitalistica-decadente, reagivano, e menavano più forte, ecco l’allarme per la risorgenza del regime. Un regime che nessuno poteva aver conosciuto avendo i più vecchi a malapena diciotto anni. Io stavo al liceo Carducci, profondo rosso antico come tutti, liceo di tradizione resistenziale e ovviamente antifascista, lezioni nei sotterranei durante l’occupazione di guerra, e i più esaltati erano come sempre i più scaltri: “Compagni, bisogna capire le ragioni delle Brigate Rosse!”, all’indomani del delitto Moro e lo predicavano i figli dell’alta borghesia meneghina, la più snob e la più ipocrita di tutte.
Poi andavo a trovare il tribuno della plebe nella sua magione di Foro Bonaparte, mi apriva la cameriera in cresta e pettorina e lui, regale: sono amici miei, puoi andare. E ci portava in visita nella magione che dentro teneva una discoteca, attrezzature per milioni e siamo ai primi anni Ottanta. Durante il pellegrinaggio ci imbattevano nella Menorah, il candelabro ebraico a sette bracci e lui con pazienza spiegava a noi pellegrini disimpegnati e qualunquisti, pertanto fascisti inconsapevoli: vedete, capite perché in casa siamo antifascisti. Sì, Paolino, ma un antifascismo passepartout che andava bene per tutto, protesta barricadera e disco music, la borghesia mercadora capitalista delle professioni e il brigatismo che fingeva di volerla abbattere. C’era un altro, l’erede Ambrosoli dell’impero dolciario, girava lacerando democraticamente i manifesti che non gli piacevano, poi non se n’è saputo più niente, sarà in qualche paradiso fiscale a controllare le sua aziende delocalizzate.
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Pestaggio liceo Michelangiolo, cosa non torna
Che noia che barba che noia questo ritorno dell’uguale e del peggio anche nelle falsità e nelle strumentalizzazioni: lo sanno o non lo sanno i garantisti pro domo come Sansonetti, i carrieristi universitari come Montanari, gli opinionari parassitari e opportunisti, lo sanno o no che quella dell’aggressione fascista al liceo Michelangiolo, liceo profondo rosso antico come tutti, è una balla, che a risalire su per li rami della storia si trova sempre qualcuno che volantinava prima ed è stato provocato, aggredito, da cui la reazione, a ritroso, fino a Caino e Abele? Lo sanno benissimo ma sanno anche un’altra cosa, sanno la lezione gramsciana o della lingua di legno delle dittature naziste e comuniste: che a forza di ripeterla una menzogna diventa realtà, l’unica realtà. Che hanno un bel precisare, notiziare i giornalisti non allineati sulle preesistenti azioni e provocazioni dei collettivi, dei centri sociali, scavassero pure, interpellassero pure, tanto alla fine l’unica cosa che resta è il pestaggio fascista, l’allarme fascista. Ed è perfetto, così si possono anche legittimare i manichini bruciati o appesi per i piedi di Giorgia Meloni, le aggressioni a Capezzone alla Sapienza, fino ai dementi storici che senza timor di ridicolo scandiscono: via Cospito, viva Tito, viva l’Unione Sovietica.
Una sola narrazione
Quella dell’aggressione nazifascista al liceo Michelangiolo non è una fake news, è una totale allucinazione ma, in mancanza di una informazione onesta e di debunker che sono gli scarti della sottoinformazione di servizio, diventa versione ufficiale, diventa narrazione. Al ginnasio la prima cosa che vidi entrando in classe al Carducci fu un armadietto sventrato: “Sì” spiegava una professoressa marxista quasi estatica “sono stati alcuni compagni antifascisti, hanno tirato una molotov”. In cosa diversa da quella collega esaltata che oggi, 45 anni dopo, manda una grottesca circolare per dire: attenti, il fascismo nacque dalla strada, tipo gang di New York, per dire che saliva da cose minime, apparentemente impercettibili?
Sì, professoressa Favino, come vuole lei ma anche l’incendio della prateria, lo spontaneismo armato fino alle Brigate Rosse superorganizzate, nascevano da scintille, da prove tecniche di trasmissione, nascevano dal basso, come si dice: ce li siamo trascinati, in modo carsico, per mezzo secolo come le catene di Jackob Marley e nel 2023 stiamo ancora qui a sentire i figli, i nipoti dei nostri compagni invocare libertà per i compagni delle brigate rosse in galera, libertà per l’anarchico Cospito che “gode appieno della vita” solo mentre spara addosso a qualcuno. Che noia questo paese di risacca, che a fasi cicliche torna a scaricare il suo peggio, che barba il passaggio dall’ur fascismo di Umberto Eco al fake fascismo della professoressa Favino.
Max Del Papa, 24 febbraio 2023