Nell’articolo, Dal franchismo alla Catalogna: finché c’è guerra civile, e odio, (non) c’è speranza pubblicato sul Dubbio il 24 ottobre 2019, avevo espresso non poche perplessità sulla decisione della Corte suprema spagnola che aveva approvato all’unanimità la traslazione dei resti di Francisco Franco dalla Valle de los Caídos – il monumento voluto dal Caudillo, dopo la vittoria nella Guerra Civile (1936-1939) per commemorarne tutte le vittime – al cimitero El Pardo – Mingorrubio. Al premier Pedro Sanchez che aveva espresso tutta la sua soddisfazione per la sentenza – «Viviamo una grande vittoria della democrazia spagnola. La determinazione a riparare le sofferenze delle vittime di Franco ha sempre guidato l’azione del governo» – avevo umilmente obiettato: «Già, e le vittime della Repubblica? La violenza roja fu solo una reazione violenta ai massacri compiuti dai nazionalisti dopo l’Alzamiento?». E tutte le nefandezze dei repubblicani verranno considerate come gli inevitabili stracci che volano ogni volta che si mette mano a una grande impresa?
Quando Juan Carlos restaurò in Spagna la monarchia, mi sembrò molto saggia la politica dell’olvido intesa a mettere una pietra sul passato, nel saggio riconoscimento che tutte le parti in causa, nella guerra civile, avevano dato prove inedite di efferatezza e di ferocia. La vittoria di Franco parve a molti il male minore e, oggettivamente, non solo evitò che in Europa si costituisse una Repubblica sovietica iberica, ma fu determinante per la vittoria degli angloamericani, col rifiuto dato all’Asse di prendere Gibilterra alle spalle riducendo il Mediterraneo a un mare interno del Terzo Reich. Gli Spagnoli la pagarono a caro prezzo: trentasei anni di regime poliziesco e di oppressione clericale e vendette che si protrassero ben oltre la fine della guerra civile. Ma se valgono le analogie con quanto successe nell’Europa Orientale, ‘liberata’ dall’Armata Rossa, forse non molto diversa sarebbe stata la sorte di castigliani e catalani, pur con un diverso ‘pouvoir spirituel’ (il partito invece della Chiesa).
Per questo la Spagna mi parve ammirevole: relegando il passato in soffitta, dando a ciascun partito la libertà di onorare i propri morti e di rivendicare gli ideali per i quali si era battuto (sì perché anche quelli di «Arriba Espana!» ne avevano, come ne avevano le nostre camicie nere e azzurre), instaurando un regime democratico tale da far sentire tutti gli spagnoli membri di una stessa grande famiglia, i nostri dirimpettai del Mediterraneo occidentale avevano dato una prova di civiltà su cui l’Italia ANPIsta e faziosa avrebbe dovuto riflettere. Al di sopra del fascismo e dell’antifascismo, era lo spirito liberale a celebrare i suoi trionfi, ed esso significava memoria storica condivisa, riconoscimento dei rispettivi torti assieme all’orgoglio di aver difeso i propri ideali, soddisfazione per il ricongiungimento all’Europa civile, quella delle democrazie e delle ‘garanzie della libertà”.
Nel nostro Paese tutto questo è mancato, e si è persa l’occasione di un’effettiva costruzione di una memoria condivisa basata su alcune semplici verità: la guerra mondiale e un sistema politico che stava mandando in pezzi l’Italia hanno generato il fascismo; il fascismo, se ha salvato la comunità politica dalla disgregazione, ha comportato la perdita delle libertà politiche iscritte nella ‘grande promessa del Risorgimento’; il duce, in virtù della sua politica sociale e della sua modernizzazione dall’alto, ha goduto per un certo tempo di un vasto consenso popolare; le infauste leggi razziali e l’alleanza con la Germania nazista, alle origini di una guerra tragica e assurda, hanno portato il paese alla catastrofe e chiuso ingloriosamente il ventennio; la Resistenza non fu solo restaurazione democratica ma, in una sua vasta componente, fu anche tentativo di instaurare una repubblica comunista; la ‘guerra civile’ portò lacrime e sangue alle due parti in lotta ma, per fortuna, grazie agli Alleati (con l’aiuto dei partigiani), si risolse nella vittoria della parte che si batteva per la democrazia – democrazia anche per gli avversari della democrazia, era la slogan che legittimava la Repubblica.
Tutto questo era implicito nella storiografia revisionista di Renzo De Felice e, grazie anche a intellettuali comunisti come Giorgio Amendola, stava quasi diventando ‘senso comune’. «Oggi De Felice rischierebbe l’Inquisizione», ha scritto giustamente Marcello Veneziani su La Verità del 12 novembre e, in effetti, da alcuni anni l’antifascismo ottuso e persecutorio ha ripreso il sopravvento per legittimare l’union sacréé contro il presunto ‘duce’ di turno, Silvio Berlusconi, prima, Matteo Salvini dopo. L’italiano medio, però, rimane indifferente, come quel fedele che era rimasto l’unico a non commuoversi per la predica del curato e a chi gliene chiedeva la ragione rispondeva: «perché appartengo a un’altra parrocchia!».
Era scontato che anche gli spagnoli non avrebbero seguito Sanchez nel suo entusiasmo. Stando ai giornali, la vicenda della tomba di Franco ha contribuito a far raddoppiare i voti di «Vox» (dal 14% di aprile al 22% delle ultime elezioni). Chi vuol fare dell’antifascismo una risorsa retorica e simbolica, inevitabilmente, genera una reazione di rigetto. L’uomo della strada, in Spagna – ne conobbi diversi quando il dittatore era ancora in vita – alla domanda sul Caudillo rispondeva: «Franco ni bueno ni malo». Oggi forse, infastidito dall’SOS Fascisme! vota per Santiago Abascal. La mobilitazione antifascista fuori stagione della Izquierda spagnola è la manna insperata per i nostalgici del Generalissimo.
Uno come Matteo Salvini, che sarà pure sovranista ma non stupido, giustamente ringrazia quando gli danno del razzista e parlano di ‘bestia salviniana’. Masochisti e autori di autogol sono sempre graditi, quando giocano nella squadra avversaria.
Dino Cofrancesco, Paradoxa Forum 18 novembre 2019