Pubblichiamo di seguito l’appello scritto e firmato da Eugenio Capozzi, Gaetano Cavalieri, Francesco Forte, Marco Gervasoni, Ettore Gotti Tedeschi, Guido Guastalla, Corrado Ocone, Antonio Pilati, Giulio Sapelli, Aurelio Tommasetti e Giorgio Zauli. Difendere l’interesse nazionale equivale a difendere i produttori e difendere i produttori significa difendere l’interesse nazionale.
La crisi economica e quindi sociale che ci ha già investiti e che ancor più ci investirà nei prossimi mesi sarà assai più devastante di quelle, pur gravi, che la storia d’Italia ha in precedenza vissuto. Questa ha infatti tutte le caratteristiche per radere al suolo l’apparato produttivo, in una dimensione che potrebbe essere equiparata solo a quella della Seconda guerra mondiale. Con la conseguenza di riportare l’Italia indietro di decenni, di farla regredire e di collocarla in una posizione del tutto marginale nello scenario europeo, accanto a paesi come Grecia, Romania, Bulgaria.
Verrebbe così vanificato il lavoro e lo sforzo di generazioni e generazioni che, dal disastro della Seconda guerra mondiale, avevano portato l’Italia ad essere, negli anni Ottanta, prima dell’adesione a Maastricht, nel G7 e a porsi come terza economia europea. Il declino, cominciato negli anni Novanta per cause più politiche che economiche, si tramuterebbe nella morte della nazione. Per questa ragione oggi difendere i produttori di ricchezza, gli imprenditori, i commercianti, le partite Iva, i lavoratori autonomi ma anche i dipendenti delle imprese, è un’opera di resistenza e di riscatto nazionale che riguarda tutto il paese. Crediamo che il disastro possa essere evitato solo mettendo al centro della missione il tema della produzione e della innovazione tecnologica: tutta la nazione dovrebbe impegnarsi in un titanico sforzo per consentire ai produttori di creare ricchezza.
Il futuro dell’Italia passa infatti dalla tutela dei produttori, è quindi problema economico come problema di produzione. Per questo la politica dovrebbe porsi come primo obiettivo quello di eliminare ogni tipo di vincolo che la freni. Nessuna deriva assistenzialistica, che si tramuterebbe in parassitismo, ma totale sostegno alla produzione. Per la prima volta nella storia, infatti, per un certo numero di settimane, la gran parte delle filiere produttive del paese si è bloccata, cosi come quella delle reti globali da cui le imprese italiane traggono linfa. Un fatto mai avvenuto, neanche durante la guerre, quando le filiere produttive non solo non si fermavano ma venivano addirittura potenziate in direzione bellica – cosa che favoriva, dopo la fine della guerra, un quasi immediato ripresa.
Oggi invece le previsioni di rapida ripresa sono considerate, anche dai più ottimisti, assai flebili. V’è un altro elemento che aggrava la situazione: in passato le crisi economiche erano prodotte dall’andamento dei mercati e dalla produzione, ora la crisi scaturisce da una decisione politica, quella dei governi di bloccare la produzione. Un altro evento mai avvenuto, almeno nelle economie regolate dal libero mercato e dalla libera impresa. Siccome è stato il governo a imporre la chiusura, è il governo che se ne dovrà fare carico: tuttavia il modo in cui ciò oggi avviene, con il cosiddetto Decreto Rilancio, ci appare non solo insufficiente, ma sbagliato e persino pericoloso
A quasi due mesi dalla chiusura di tutte le attività commerciali, di buona parte di quelle professionali e di molte industriali, si può ritenere infatti che il governo abbia fatto ben poco, soprattutto se lo confrontiamo con la politica di helicopter money di Trump ma anche con quella di Merkel e di Macron. Pesano certamente i fattori della pachidermica ed inefficiente burocrazia, della incapacità politica e delle divisioni interne all’esecutivo, ma a nostro avviso i fattori frenanti sono di due ordini, uno strutturale e l’altro culturale.