Politica

Le 2 vere grane di Giorgia Meloni

Dalle banche ad Autostrade, quali sono i prossimi scogli della premier

Per Meloni non c’è pace: alleati che scalpitano, i suoi «fratellini» da tenere al guinzaglio, e come se non bastasse la puntigliosa attenzione del Colle. Giorgia direbbe: «Mai ’na gioia…». Nel frattempo, due tsunami politico-economici si stanno avvicinando, e rischiano di renderle indigesto il panettone natalizio: il «risiko bancario» e la bomba Autostrade. Il primo innescato da Andrea Orcel, ceo di UniCredit, con l’annuncio di una possibile fusione con Bpm e Mps, colta a sorpresa persino dal ministro Giorgetti.

Quest’ultimo, spiazzato nei fatti anche per plateale carenza di «intelligence economica», è costretto ad inseguire gli eventi, invocando mercato e golden power da incastrare come pezzi di un puzzle secondo le convenienze del momento. L’operazione ha ricevuto il placet anche dell’ad di Intesa Sanpaolo Carlo Messina, il miglior banchiere d’Europa. Dall’altro lato, c’è allarme rosso a Chigi per il caos giuridico-finanziario di autostrade/Aspi/CDP che ha preso il via da una sentenza della Corte di Giustizia europea riaprendo il caso del Ponte Morandi. Il verdetto porta alla ribalta le decisioni piene di interrogativi dei governi Conte (con Roberto Chieppa e Alberto Stancanelli mandarini in prima linea) e Draghi, con la concessione autostradale di Aspi che ora potrebbe essere rimessa in gara. Il rischio? Una tombola da oltre 8 miliardi di euro che la famiglia Benetton potrebbe dover restituire, con conseguenze devastanti per Cassa Depositi e Prestiti e i suoi soci privati.

Ma andiamo con ordine. L’idea di una super-banca italiana che unisca UniCredit, Bpm e Mps sarebbe l’occasione per la premier di consolidare la sua leadership nel «monopoli» europeo. Un progetto ambizioso che, con l’operazione Commerzbank sullo sfondo, potrebbe trasformarsi in una «UniCredit d’Europa» a trazione italiana, coronando un sogno che neppure Super Mario Draghi era riuscito a realizzare. Ma il percorso è a rischio di trappole ed imprevisti: resta da capire perché il risanamento di Mps, guidato dal modesto Luigi Lovaglio, non convinca gli strateghi bancari, lasciando dubbi sulla sostenibilità di un futuro rilancio. Forse perché in questi anni, come molti sussurrano, la gestione della banca più antica del mondo è stata condotta, in totale solitudine, da Lovaglio e il «ragionier tuttofare» Maurizio Bai come una filiale qualunque che insegue mutui e piccoli prestiti, senza troppa visione strategica e ancor meno incisività, come più volte hanno ricordato Bce e Banca d’Italia.

Più spinosa è la questione Aspi. Il controllo della società, che gestisce 3mila km di rete autostradale, passato nel 2022 dai Benetton al consorzio Cdp-Blackstone-Macquarie, ora rischia di essere rimesso in discussione. La transazione è sotto esame dopo che la Corte di Giustizia europea ha rimbalzato la questione al Tar del Lazio (presidente Roberto Politi) che questa volta non potrà più fare come Ponzio Pilato. La quarta sezione dovrà decidere a breve sulla correttezza della procedura seguita per il Ponte Morandi, come ha denunciato con forza l’indomita Egle Possetti, portavoce delle vittime che attende con ansia il pronunciamento. E per non dimenticare ha annunciato che il prossimo 15 dicembre, a ridosso delle decisioni del Tar, sarà inaugurato a Genova un Memoriale che diventerà un ammonimento perché tali tragedie non accadano mai più.

Se il Tribunale dovesse accogliere il ricorso di Adusbef, che contesta la modifica della concessione senza una nuova gara pubblica, l’intera operazione potrebbe tornare indietro senza passare dal via creando un effetto domino devastante su governo, Cdp e credibilità italiana. Su questa eventualità è stata allertata dagli uffici della Presidenza la stessa Meloni nei giorni scorsi. La vicenda nasce dal dramma del Ponte Morandi, crollato nel 2018 e costato la vita a 43 persone. All’epoca, i governi Conte e Draghi avevano optato per una generosa transazione a favore dei Benetton, evitando una gara europea. Ora, però, i nodi stanno venendo al pettine. La sentenza del Tar sarà un banco di prova: capiremo se la concessione è stata modificata per «circostanze imprevedibili» o, sciaguratamente, per mera convenienza. La gestione autostradale resta un campo minato.

Per anni il ministero delle Infrastrutture ha concesso ampi margini ai concessionari, con scarsi controlli, aumenti dei pedaggi a fronte di investimenti al lumicino. Il più preoccupato è ora Matteo Salvini il quale saggiamente e con determinazione, tenta una riforma del sistema, ma i problemi sono tanti e radicati: concessione estesa fino al 2046, difficoltà nell’attuare gli investimenti previsti e le politiche europee del Green Deal che a volte cozzano con i progetti di rinnovamento del ministro delle Infrastrutture. Giorgia Meloni si trova dunque in mano due patate bollenti. Sul fronte bancario, deve mostrare visione e forza, evitando di cedere sovranità. Sul fronte autostradale, deve evitare che il governo venga travolto da un ciclone legale ed economico di proporzioni storiche. E, visto che si parla di «ponti», il rischio è di doverne spezzare parecchi, compresi quelli in corso più riservati con Draghi e Conte, passando per quel pezzo di Pd, Prodi, Delrio, De Micheli, che ha sempre strizzato l’occhio alla grande famiglia di Autostrade.

La premier però, forte del suo attuale enorme consenso, ha pronta l’arma letale per mettere tutti a cuccia: elezioni anticipate nel ’25. Basta bluff o strategie, si torna al voto. E vedrai come parlamentari e i loro capataz la smettono di frignare.

Luigi Bisignani per Il Tempo 1° dicembre 2024

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