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Le 3 riforme toppate da Draghi

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Il Governo Draghi si è insediato nel mese di febbraio (ormai più di sei mesi fa) dandosi due obiettivi espliciti: combattere con ogni mezzo la pandemia e varare il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Missione compiuta, potremmo dire. Ma la prospettiva disegnata dal discorso programmatico da Mario Draghi era giustamente più ampia: “Oggi noi abbiamo, come accadde ai governi dell’immediato Dopoguerra, la possibilità, o meglio la responsabilità, di avviare una Nuova Ricostruzione”.

E se si parla di Ricostruzione – nuova ricostruzione – interviene la prerogativa principale del premier, indicata a chiare lettere nell’articolo 95 della Costituzione: “Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri”. Dirigere, promuovere, coordinare. Tre verbi che potrebbero risultare il peccato originale del Governo dei Migliori e del suo presidente.

Emergenza e programmazione. Non è facile tenerle insieme, ma tanto è richiesto a chi guida il Paese in tempi eccezionali. Mario Draghi lo aveva chiaro: “Il Governo farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza. Non esiste un prima e un dopo. Siamo consci dell’insegnamento di Cavour: “le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”. Ma nel frattempo dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività”.

Difficile giudicare la gestione dell’emergenza, di una emergenza senza precedenti come quella scatenata dal Covid-19. Più facile valutare l’impegno di “dirigere, promuovere, coordinare”. In questi sei mesi di governo abbiamo assistito a iniziative spesso estemporanee di molti dei ministri, che hanno dato l’idea di non essere “diretti e coordinati”. Dai migliori ai peggiori. Un paio di esempi. Marta Cartabia è di diritto inserita nel novero dei migliori. Ma la sua riforma della Giustizia è risultata contraddire il metodo, prima ancora che le finalità. Draghi è intervenuto a valle, minacciando voti di fiducia e crisi di governo; avrebbe potuto e dovuto sostenere prima e meglio la progettualità riformatrice.

Il caso della riforma della Giustizia, la sua complessità, somiglia alla riforma del Fisco, esplicitamente citata da Draghi in febbraio. “Le esperienze di altri Paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta. A esempio la Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento”. La commissione Lattanzi, in tema di Giustizia, era stata deputata a questo. Peccato che il suo corposo e autorevole lavoro si sia fermato nei cassetti di via Arenula. Il Parlamento ha preferito – concordi Cartabia e partiti – ripartire dalla riforma Bonafede. E si sa com’è finita. Male.

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