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Le 5 lezioni di Meloni alla Cgil

Il discorso di Giorgia Meloni al Congresso nazionale della Cgil ha dato cinque lezioni al sindacato e alla sinistra. Ecco quali

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Dopo il turno del centrosinistra, che ieri ha visto sfilare sul palco di Rimini, per il Congresso nazionale della Cgil, i leader Schlein, Conte, Fratoianni e Calenda, stamattina è stata la volta di Giorgia Meloni. Una scelta, quella della premier, di affrontare ed entrare direttamente nella “tana del leone”, con la consapevolezza che le stanze del sindacato rosso non siano quelle più accoglienti per un esponente – figuriamoci per un leader – della destra conservatrice.

Numerosi i temi trattati. Dal salario minimo al Reddito di Cittadinanza, per poi passare ad esaminare il ruolo di Stato e aziende nella produzione di nuovi posti di lavoro. Non sono mancate – ovviamente – critiche nei confronti del premier, lancio di peluche per ricordare la tragedia di Cutro, contestazioni da parte di un gruppo minoritario di presenti, che al momento della salita sul palco della Meloni ha intonato Bella Ciao a pugno chiuso, per poi abbandonare la sala. La risposta del premier è stata esemplare, così come in almeno altre quattro circostanze, che di seguito elencheremo e analizzeremo.

Meloni, la Cgil scuola di democrazia

La lezione di Giorgia Meloni contro i contestatori. Dopo essere salita sul palco del “lupo”, la leader di Fratelli d’Italia ha atteso pazientemente che terminasse la “scenetta” dei pochi manifestanti, per poi offrire una chiara lezione di democrazia ai contestatori. “Mi sento fischiata da quando ho 16 anni. Potrei dire che sono Cavaliere al merito su questo”, ha detto la premier, che poi ha concluso: “Non mi sottraggo a un contesto sapendo che è un contesto difficile. Non mi spaventa”.

Meloni ha ricordato come invece il Congresso in sé, e l’invito esteso al Presidente del Consiglio da Maurizio Landini, sia un esercizio di democrazia, instaurando così un confronto “utile e necessario”. Una botta per i contestatori, che in chiaro dissenso hanno deciso di abbandonare la sala, accecati dal pregiudizio contro la fondatrice di FdI, ancora prima che il premier parlasse. Insomma, non lo stesso trattamento che un presidente di sinistra avrebbe ricevuto. “La contrapposizione è positiva, ha un ruolo educativo, l’unità è un’altra cosa, è un interesse superiore, è il comune destino che dà un senso alla contrapposizione”, ha sentenziato alla fine Giorgia Meloni.

No al Reddito di Cittadinanza

Nel mentre, dopo aver condannato duramente l’attacco deliberato di Forza Nuova alla sede di Roma della Cgil, lo scorso ottobre 2021, è stato il momento del Reddito di Cittadinanza, tra i primi terreni su cui il governo ha deciso di mettere mano fin da subito. Anche in questo caso, il messaggio della numero uno di Palazzo Chigi ai presenti è chiaro: un contro è offrire sussidio a chi non è in grado di lavorare, un altro conto è ingrassare le tasche di chi lo può fare.

La scelta della Meloni, quindi, non è “contro i poveri” – come certa sinistra vorrebbe farci credere, e come Landini ha specificato nella sua relazione – ma è necessaria per distinguere politiche attive del lavoro e politiche sociali. “Vogliamo tutelare chi non è in grado di lavorare, chi ha perso il lavoro, gli invalidi – ha ribadito il premier – ma per chi può lavorare la soluzione è creare posti di lavoro”, anche attraverso la creazione di nuovi corsi di formazione retribuiti per specializzare i percettori in grado di lavorare.

Per approfondire:

Non manca l’attacco al populismo grillino: “Anche per il M5s il reddito di cittadinanza non era un vitalizio, ma uno strumento transitorio. Dopo 3 anni la condizione di chi lo ha percepito non è migliorata. Vi domando: un ragazzo di 30 anni, che ha percepito il reddito e che non ha migliorato la propria condizione, a 33 anni è meno povero?”, ha sentenziato il Presidente del Consiglio.

No al salario minimo

La terza lezione impartita da Giorgia Meloni è sicuramente quella sul salario minimo legale. Già nel corso dell’interrogazione parlamentare di due giorni fa, Elly Schlein ha cercato di incalzare il premier parlando di “incapacità, approssimazione e insensibilità” dell’esecutivo. La leader di Fratelli d’Italia, però, dalla sala di Rimini, ha ribadito il messaggio lanciato in Parlamento: “La fissazione per legge del salario non sarà una tutela aggiuntiva, rispetto a quella della contrattazione collettiva, ma potrebbe diventare sostitutiva, facendo un favore alle grandi concentrazioni economiche“, che potrebbero rivalutare al ribasso la retribuzione dei propri dipendenti.

La misura preferenziale dell’esecutivo, quindi, sarebbe quella di estendere ulteriormente la contrattazione collettiva, intervenendo contemporaneamente attraverso una riduzione dell’enorme cuneo fiscale a carico dei lavoratori. In tal senso, Palazzo Chigi ha già sborsato 300 milioni di euro per aumentare la retribuzione degli insegnanti, oltre all’intenzione di tagliare di due punti percentuali proprio il cuneo fiscale.

La ricetta liberale

La quarta lezione di Meloni alla Cgil la potremmo definire propriamente liberale, nonostante l’humus da cui deriva il presidente del Consiglio sia maggiormente tendente al mondo conservatore. Un dato, però, è inoppugnabile (e ha diviso fortemente il premier dalla Cgil): il ruolo dello Stato in ambito lavorativo. Dopo l’ok del Consiglio dei Ministri alla nuova delega fiscale, che prevede una nuova Irpef con tre aliquote, Iva azzerata per i beni di prima necessità e lo stop alle comunicazioni nei mesi di agosto e dicembre, è ora di ribadire un sano principio ricossiano: “Noi veniamo da un mondo in cui ci si è detto che la povertà si poteva abolire per decreto e che il lavoro si poteva creare per decreto – ha affermato Meloni – Se fosse così, dovrebbe essere lo Stato a creare ricchezza, non è così”. E sentenzia: “La ricchezza la creano le aziende con i loro lavoratori”.

Un colpo basso all’imperante statalismo sindacale e – ancora una volta – al reddito grillino. Il ruolo decisivo di Roma non è quello di “Stato-papà”, bensì quello di accompagnamento dei contribuenti attraverso poche e chiare regole, snellendo la burocrazia, in un’ottica di “redistribuzione della ricchezza tra i lavoratori” e mettendo le aziende nelle condizioni “di creare ricchezza che si riverbererà su tutti”.

L’appello finale di Meloni alla Cgil

La quinta lezione riprende la prima, sul solco del forte spirito democratico che ha differenziato il Presidente del Consiglio dai contestatori a pugno chiuso, che poi hanno abbandonato la sala. Indipendentemente dalle divergenti visioni, il confronto tra governo e sindacati andrà avanti alla luce del confronto, senza pregiudizi. Un chiaro messaggio a quella sinistra che, ormai da quasi cinque mesi, continua ad alimentare un inesistente pericolo “fascismo”, autoritario, fondato su un’aspra critica a priori.

“Su molte cose – ha detto il premier – si può trovare condivisione, su altre è più difficile, ma ciò non significa non tentare il confronto. Io non considero finito il confronto tra sindacato e governo, lo considero produttivo anche quando non siamo d’accordo”. E sentenzia, alla faccia dei contestatori rossi: “Bisogna avere l’umiltà di non partire dal pregiudizio. E io non parto, perché banalmente aspiro a rappresentare tutti gli italiani”.

Matteo Milanesi, 17 marzo 2023