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Le comunicazioni di Dio e quelle di Instagram

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Un piccolo grande libro (di Riccardo Ruggeri) sulla sua battaglia contro il cancro, mentre i social distribuiscono milioni di dollari a influencer (o “sfaccendati che fanno pubblicità con il loro corpo”). Stefano Lorenzetto ci racconta due comunicazioni opposte

Riccardo Ruggeri, ex amministratore delegato che quotò il colosso New Holland a Wall Street, mi scrive dopo aver letto la “Controcronaca” di domenica scorsa sul primo telefono della Telve entrato nella casa dei miei genitori: «Noto che non sei partito con il duplex (share economy ante litteram). Eri già un ricco». Lo ringrazio per aver risvegliato un ricordo sopito dal sopraggiunto benessere. Eh no, caro Riccardo, la linea era proprio in comproprietà con un’altra famiglia, e non sto a raccontarti gli improperi reciproci quando veniva impegnata per troppo tempo.

Ruggeri ha lavorato a lungo negli Stati Uniti e in Inghilterra. Oggi vive tra Lugano e Torino. L’ho già portato quattro volte a Verona e dopo ogni incontro mi sono giunte richieste di cittadini affascinati dal suo pensiero limpido, desiderosi di andarlo a trovare di persona. È un esperto, oltreché di economia e politica, anche di comunicazione, e non solo perché scrive sui giornali e, da editore, pubblica libri per beneficenza.

La comunicazione di Dio

In questi giorni ne è uscito uno a sua firma davvero straordinario, che si legge in mezz’ora. Sono stato fra i primi, o forse il primo, ad avere fra le mani l’originale. Diciamo che l’autore ha voluto che ne fossi l’ostetrico. S’intitola “Il cancro è una comunicazione di Dio”. La sua Grantorinolibri devolverà interamente i ricavi delle vendite a Bartolomeo & C., un’organizzazione di volontariato piemontese fondata da Lia Varesio, detta «l’angelo dei barboni», che prende il nome da un clochard molto conosciuto dagli abitanti del centro storico di Torino, trovato irrigidito dal gelo sotto un cumulo di stracci e di cartoni nel 1979. (Almeno all’ombra della Mole i vagabondi muoiono di freddo, non come a Verona, dove il povero Olimpio Vianello, detto El Crea, finì massacrato a calci e pugni mentre dormiva all’addiaccio, o come a Zevio, dove il senzatetto marocchino Ahamed Fdil fu bruciato vivo nell’auto trasformata in riparo per la notte).

Il volumetto è stato concepito in un modo strano: solo una frase, a volte due, al massimo tre o quattro, nelle pagine di destra; bianche, come se fossero ancora tutte da scrivere, quelle di sinistra. Era già pronto per andare in stampa, quando è accaduto un fatto inaspettato. Ruggeri ha inviato le bozze al suo amico Angelo Codevilla, un politologo immigrato negli Stati Uniti che ha insegnato alla Stanford University e alla Boston University ed è stato consigliere del presidente Ronald Reagan, senza mai montarsi la testa (infatti alla messa per i suoi 50 anni di matrimonio ha indossato l’abito da sposo che nel 1963 gli tagliò un certo Lino, sarto a Voghera; invece la sposa si è rimessa quello che la mamma di Codevilla le cucì poco prima delle nozze). Il professore è rimasto così sconvolto dalla lettura del libretto (12 centimetri per 16,5) che ha preteso di tradurlo personalmente in inglese. E così le pagine bianche di sinistra sono state riempite dal testo a fronte.

«Quando alcuni mesi fa seppi di avere un carcinoma alla prostata, non fui preoccupato», comincia così Ruggeri. «Tre anni prima ero entrato in quella che chiamo la Decade della Morte (80-90 anni), quindi la scoperta del carcinoma la considerai una comunicazione personale di Dio. Lui mi informava, semplicemente, che non sarei morto per il collasso dell’apparato cardiocircolatorio, come era sempre successo nella mia famiglia, ma per un cancro».

E da lì prende le mosse il racconto, intellettualmente avvincente, quasi una messinscena teatrale, di come Ruggeri ha cercato di domare «la tigre feroce», assimilando il carcinoma «a una bad company, che nei processi di salvataggio di aziende tecnicamente fallite consideravo un’escrescenza tumorale, prima da configurare, poi da espellere».

Il giorno in cui il libro è uscito ha coinciso con l’ultima delle 35 radioterapie alle quali Ruggeri si è sottoposto (a pagamento: ha la residenza in Svizzera, dunque non è assistito dal nostro Servizio sanitario nazionale). Quella mattina mi ha telefonato. Ancora non sapeva se la bestia sarebbe stata sconfitta. Ma era felice per aver contravvenuto al consiglio che il suo partner di New Holland India gli ripeteva spesso durante le trattative: «Se cavalchi una tigre non puoi scendere, altrimenti la tigre ti divora».

Riccardo dalla belva è sceso subito, con la sua consumata abilità sperimentata nel risanare le aziende decotte. Era contento perché aveva deciso di curarsi alle Molinette, a Torino, la città dove fu partorito dentro una portineria di 15 metri quadrati in cui vivevano in cinque: «Qua sono a casa mia, ci siamo tutti, mia moglie, le mie nuore-figlie, i miei figli, i miei nipotini, qua sono sepolti mia mamma e mio papà, c’è il Filadelfia, c’è il Toro». In sette settimane (sabato e domenica liberi) i suoi amici Dario Fontana e Umberto Ricardi, ordinario e direttore del dipartimento di radioterapia e di oncologia dell’Università di Torino, lo hanno sempre tenuto per ultimo, benché solvente, nella lista del day hospital («l’ho preteso io, prima i mutuati, com’era giusto che fosse»).

«Non mi sono caduti i capelli, non ho avuto perdite di sangue, ho una fame da lupi, le radiazioni ionizzanti mi hanno persino reso la pelle più luminosa», mi ha spiegato. «Ho sparato l’unica cartuccia che avevo a disposizione. Ora vedremo». Ma soprattutto era euforico, il mio amico Riccardo, perché “Il cancro è una comunicazione di Dio” stava già suscitando, a poche ore dall’arrivo in libreria, un formidabile interesse. Allora mi sono ricordato di una profezia di Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars morto nel 1859: «Verrà un giorno in cui gli uomini saranno così stanchi degli uomini, che basterà parlare loro di Dio per vederli piangere», e ho pensato che quel giorno era arrivato.

Mi sono però stupito dell’incredulità di Ruggeri di fronte alle recensioni entusiastiche riservate alla sua confessione letteraria. Quando me la mandò per averne un giudizio, e anche per revisionarne la forma grafica, gli spiegai che conosco un solo modo per parlare al cuore dei lettori, per mettersi in totale sintonia con loro, ed è l’ostensione del proprio corpo, delle proprie debolezze, delle proprie paure. Con queste pagine, gli dissi, è come se tu esponessi le tue viscere alla luce del sole, dimodoché tutti le possano vedere, perciò questo atto sarà percepito come la forma più alta d’intimità e tanta gente trepiderà insieme a te e ti vorrà bene.

La comunicazione di Instagram

Sarebbe adesso interessante sapere che cosa pensa Ruggeri – assurto ai vertici della Fiat dopo essere entrato nel 1953 come operaio nell’officina 5 di Mirafiori – di certe nuove forme di comunicazione, così lontane da quelle di Dio. Chissà come giudicherebbe, per esempio, quei veronesi che intascano 300 dollari per ogni foto di abiti da sposa griffati postata su Instagram e su Pinterest. Non è richiesta nessuna competenza, né alcuno sforzo.

In questa nostra società sta dilagando l’influencer, a mio modesto parere peggiore della spagnola e della cinese. A differenza dell’influenza vera, che ogni anno in Italia colpisce fino a 6 milioni di persone e ne ammazza una volta per tutte dalle 7.000 alle 8.000, l’influencer – personaggio popolare che attraverso Internet riesce a orientare i comportamenti e gli acquisti degli utenti – contagia il doppio, il triplo, il quadruplo della popolazione, e la rimbecillisce lentamente, in maniera irreversibile.

Non c’è vaccino contro i fenomeni imitativi della Rete, come hanno ben compreso i produttori dei beni di largo consumo, che sempre più spesso utilizzano questa nuova forma di pubblicità a scapito di quelle tradizionali veicolate fino a pochi anni fa da stampa e televisione.
Se le inserzioni sono sparite dai giornali, dissestandone i bilanci insieme con il calo della diffusione in edicola, dobbiamo ringraziare Gianroberto Casaleggio, pace all’anima sua, il guru del Movimento 5 stelle che per primo teorizzò il ruolo fondamentale degli influencer, quel 10 per cento di utenti del Web capaci di modificare le opinioni del restante 90 per cento.

Oggi sono loro a dettare legge in tema di consumi. Abbigliamento, accessori, cosmetici, orologi, cibi, bevande, informatica, auto, viaggi, sport: basta che adottino una marca per renderla subito appetibile agli internauti. Intendiamoci, niente di nuovo sotto il sole.

Giorgio Faccioli, che conobbi quando si presentò all’“Arena” per annunciarmi che aveva denunciato il calzaturificio Timbelbrenn di Pastrengo, reo di avergli clonato il marchio Timberland, applicò fin dal dopoguerra la stessa ricetta, importando e imponendo in Italia miti come Ballantyne, Louis Vuitton, Clarks, Allen Edmonds, Eminence, Ralph Lauren. L’imprenditore bolognese, vero ambasciatore della moda non convenzionale, regalava le scarpe dei boscaioli americani a Gianni Agnelli, a Enzo Biagi, a Luca Cordero di Montezemolo e quelli, indossandole, diventavano i suoi testimonial. Ma lì almeno vinceva l’ecletticità di un singolo.

Ora stiamo parlando di un fenomeno planetario, privo di qualunque risvolto che abbia a che fare con il genio, l’originalità, la sostanza, lo stile, la grazia. In mancanza di uomini, fanno tendenza i manichini, non molto diversi da quelli con la pipa in bocca e il cappello di feltro in testa che un tempo stazionavano con le braccia a mezz’asta nelle vetrine di Vittadello in fondo a via Mazzini.

Per capire come gli influencer orientano gusti e disgusti, dovrei spiegare ai lettori digiuni di computer e di smartphone che cosa siano la Rete e i social network. Do per scontato che la maggioranza di loro lo sappiano e mi astengo dall’informare i pochi che lo ignorano, perché non mi piace annoiare le persone. Mi limito a riferire che secondo Emarketer, società newyorkese specializzata in ricerche di mercato nel campo digitale, il giro d’affari creato da queste nuove figure procurerà nel 2018 a Instagram (quindi a Facce e bocche, più noto come Facebook, che ne è proprietario) ricavi per 5,48 miliardi di dollari solo negli Stati Uniti.

Una cospicua parte del fiume di denaro finisce ovviamente nelle tasche degli sfaccendati influenti, la cui unica fatica è quella di ritrarsi o farsi ritrarre con addosso i gingilli sponsorizzati.
Blogmeter, leader nel monitoraggio dei flussi sui social media, ha stilato una classifica mondiale dei 10 influencer più pagati da Instagram, basata su dati raccolti nel periodo compreso tra il 12 dicembre 2017 e l’11 gennaio 2018.

Al sesto posto figura Chiara Ferragni, una cremonese di 31 anni che passa per la più famosa fashion blogger italiana, con oltre 40 milioni di utenti mensili e 13 milioni di seguaci. La sua popolarità è aumentata da quando si accompagna con una specie di maori canterino cresciuto a Buccinasco che si fa chiamare Fedez e che ha chiesto la sua mano durante un concerto in Arena.
Siccome per ogni post che pubblica su Instagram percepisce 12.000 dollari, la signora non si fa scrupolo di divulgare persino le foto del piccolo Leone, figlio della coppia, partorito tre mesi fa. Ignoro se anche tali reperti siano a tassametro.

Constato solo che sulle prime 120 immagini apparse la mattina di mercoledì scorso nel profilo personale, quelle raffiguranti l’incolpevole frugoletto erano ben 34. All’origine delle fortune di Chiara Ferragni vi è il suo ex compagno Riccardo Pozzoli, fashion blogger che ha confessato a “Vanity Fair”: «Mamma non ha ancora capito che lavoro faccio». Tranquillo. Mamma è in folta compagnia. Nessuno ha mai capito quale lavoro svolga una persona che non lavora.

La categoria è ben rappresentata pure a Verona. Vedo che fra i primi 10 influencer figurano, fra gli altri, Matteo Fusco, Camilla Lucchi, Davide Zanon, Andrea Vesentini, Danila Serra, specializzati – cito testualmente – in travel, weddings, watches, fashion, gadgets, event photography, fitness, lifestyle e molto altro.

Dimenticavo Zoe Cristofoli, 218.000 seguaci su Instagram, «la bellissima influencer tatuata che fa impazzire i social, corpo inondato di tattoo e labbra carnose, unica e speciale, che incanta ogni giorno con scatti da favola». Purtroppo non tutti apprezzano che Zoe abbia deciso di tatuarsi anche una farfalla sul collo in onore del film preferito, “Il silenzio degli innocenti”.

I suoi biografi completano il quadro con alcune informazioni memorabili: «Ex fidanzata dell’ex gieffino Andrea Cerioli, adesso Zoe è innamoratissima di un giovane imprenditore veronese, Luca Danese, ed è finita al centro dell’attenzione qualche mese fa perché si ipotizzava un suo ingresso nella casa del “Grande Fratello Nip”», non prima però di essere «passata dai guanti di Francesco Bardi, portierone del Frosinone».
Servirebbero degli influencer morali. Va’ a trovarli.

Stefano Lorenzetto, L’Arena 24 giugno 2018