Le corse green costano 150mila miliardi. Occhio al Timmermans bis

Un report certifica: costi elevati e assist garantito alla Cina. Cosa rischiano le economie europee

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Il dato che sfugge alla gran parte degli strateghi green è sempre lo stesso, ovvero quello di creare un sistema sì eco-sostenibile, ma senza barattare l’economia e la produzione per la “salvezza” del pianeta. Una salvezza piuttosto particolare, visto che mentre l’Unione Europea procede a colpi di direttive (vedasi per le case green, per esempio), dall’altra parte – Cina e India su tutte – si inquina come se non ci fosse un domani.

Il peso della Cina sul pianeta

Ma squaderniamo qualche cifra. Se si parla di produzione mondiale di Co2, per esempio, al primo posto troviamo il regime di Xi Jinping, che da solo supera le quattro economie più importanti della Terra. Stiamo parlando di un 33 per cento di produzione totale, contro il 12,5 per cento degli Stati Uniti, il 7,3 del Vecchio Continente, il 7 dell’India ed infine il 5 per cento della Federazione Russa. E ancora, se parliamo di carbone, invece, la Cina detiene il record del 50 per cento della produzione mondiale. Al secondo posto segue Nuova Deli al 12 per cento, mentre l’Unione Europea produce solo il 3 per cento del carbone globale.

Insomma, qual è il concetto essenziale? Molto semplice: anche se l’Ue dovesse improvvisamente trasformarsi nel paradiso green, la Terra sarebbe ben lungi dall’essere salvata (se veramente è a rischio, il che è tutto da dimostrare). La grande responsabilità deve essere necessariamente imputata alla dittatura comunista cinese, ma anche alla dirigenza europea, sempre più convinta di promuovere la causa Timmermans a colpi di direttive verticali, tasse e spesa pubblica, lasciando poi il conto finale ai cittadini.

“150mila miliardi per sostenere il green”

I numeri parlano chiaro. L’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili nell’outlook 2023 del World Energy Transitions ha denunciato che, per contenere l’aumento della temperatura a 1,5 gradi nel 2050, bisognerà quadruplicare gli investimenti annuali. Tradotto: le follie ecologiste ci andrebbero a costare circa 150mila miliardi di euro. Ed è il viceministro Vannia Gava a lanciare l’allarme: “Basta con i libri dei sogni, bisogna avere dei piani attuabili. Pensiamo che la tutela dell’ambiente e la tutela dell’economia debbano andare in un’unica direzione”.

Per approfondire:

Non è la sola. Sul caso è intervenuto anche Gianni Murano, nel corso dell’Assemblea dell’Unem (associazione dei petrolieri italiani): “Il petrolio al 2030-2035 sarà ancora la prima fonte di energia, sopravanzata dalle rinnovabili solo nel 2040, anche se potrebbe raggiungere il picco di domanda nel 2028 per poi mantenere un profilo sostanzialmente piatto”. E continua: “I carburanti liquidi di origine petrolifera, per quanto con una quota crescente di origine biogenica o sintetica, stimata tra il 7 e il 10 per cento, al 2040 soddisferanno circa l’85-90 per cento della domanda dei trasporti rispetto al 94 per cento di quella attuale”.

In poche parole, ancora per il prossimo decennio, il Vecchio Continente sarà obbligato a rivolgersi alla produzione petrolifera per il soddisfacimento della propria economia. Guarda caso, rimane sempre Pechino a primeggiare anche sotto questo profilo, visto che il baricentro della raffinazione si è ormai spostato verso Oriente, con la Cina che nel 2022 è diventata il primo Paese per capacità installata a livello mondiale, superando anche gli Stati Uniti. Un vero e proprio assist in termini economici, produttivi e geopolitici al nemico. Insomma, è la consegna delle nostre chiavi di casa a Xi Jinping.

Timmermans bis?

Sintesi terra terra: se la corsa alla “transizione ecologica” sarà troppo veloce, si rischia di terremotare le economie europee, di favorire Pechino e – beffa delle beffe – il tutto senza incidere di un millimetro sul cambiamento climatico. Una strategia fallimentare ma che Bruxelles negli ultimi cinque anni ha portato avanti con convinzione messianica. Il Green Deal è stato l’anima della “maggioranza Ursula”, o forse bisognerebbe dire della Commissione Timmermans. Schema che rischia di ripetersi anche dal 2024 a meno di ribaltoni politici. Le grandi manovre sono in corso. Un pezzo del Partito Popolare sta cercando di spostare verso il centrodestra l’asse di governo europeo, magari siglando un’alleanza con il gruppo dei conservatori di Giorgia Meloni.

Accordo non semplice, vista la presenza nell’Ecr del polacco Morawiecki e di Vox. E che nei numeri – sondaggi alla mano – al momento non potrebbe garantire l’elezione del presidente della Commissione. Servirebbe allargare. Matteo Salvini vorrebbe far includere nel patto anche i partiti di Identità e Democrazia, ma il Ppe non intende allearsi con gli anti-europeisti di Le Pen e Afd, come confermato da Antonio Tajani. Tutto si dirimerà dopo il voto, sia chiaro: i partiti correranno singolarmente alle elezioni e poi si vedrà a urne chiuse per alleanze e maggioranze variegate per l’elezione della Commissione Ue. Si fa strada, comunque, l’ipotesi di un bis di Ursula von der Leyen sponsorizzata da un pezzo del Ppe. Se per necessità numeriche dovesse però ripresentarsi il patto col Partito Socialista Europeo, tuttavia, il rischio è di ritrovarsi di nuovo Timmermans alla guida delle scelte europee. E l’ossessione green potrebbe finire col costarci fino a 150mila miliardi. Mica bruscolini.

Matteo Milanesi, 6 luglio 2023

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