Se c’è una cosa che ci aveva insegnato la guerra fredda, è che le democrazie funzionano meglio dei regimi totalitari. Nonostante le campagne elettorali, la necessità di garantirsi il consenso e di rispondere all’opinione pubblica, nonostante la separazione – a volte, il conflitto – tra poteri, il blocco occidentale si era assicurato una vittoria storica, filosofica ancor più che politica, sul modello sovietico. Al contrario, se c’è una cosa che ci sta insegnando lo scenario di crisi in Medio Oriente, è che le democrazie perdono terreno e appeal rispetto alle autocrazie, come Russia, Turchia e Cina. Attenzione: non significa che Vladimir Putin o Recep Tayyip Erdogan siano migliori dei leader dei Paesi democratici. Ma sullo scacchiere internazionale stanno indubbiamente segnando parecchi punti, mentre i loro concorrenti perdono terreno.
Le manovre di Pechino in Africa sono note: mentre l’Europa subisce l’immigrazione di massa, i cinesi letteralmente colonizzano il Continente nero. In Libia, il risoluto intervento a sostegno di Fayez Al Serraj ha accreditato Ankara come interlocutore privilegiato di Mosca, che invece supporta Kalifah Haftar. Italia scalzata, Ue non pervenuta. Balbettii simili sull’Iran: l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Josep Borrell, ha voluto organizzare un incontro con il ministro degli Esteri di Teheran, nel nome di un accordo sul nucleare che gli eurocrati difendono, sebbene si sia rivelato una farsa. A novembre, ad esempio, gli ispettori internazionali avevano trovato tracce di uranio in un sito non dichiarato dalle autorità iraniane. Le stesse che, in quei giorni, si vantavano di aver decuplicato la produzione dell’uranio arricchito.
Dunque, formalmente la linea dell’Ue è anti Washington, ma è chiaro che l’Europa non ha né la forza né la compattezza per rendersi davvero indipendente dagli Usa. Non ha un esercito, non ha una strategia e, quanto all’unità d’intenti, è bastato che la nazione più forte, cioè la Germania, definisse il raid su Qassem Soleimani una «reazione a una serie di provocazioni militari» dell’Iran, perché la diplomazia di Bruxelles di fatto si spappolasse.
Il punto è che dopo la caduta dell’Urss, anziché fermarsi, la storia s’è messa in moto accelerato. Nell’era che doveva sancire il dominio del capitale globale e delle sue regole, ha di nuovo fatto irruzione la politica. Ma per fare politica, ci vuole la capacità di decidere. E per decidere, bisogna essere uomini forti al comando (ma non stanno lì la tradizione e la nobiltà dell’Occidente), oppure leader determinati e dotati di una solida investitura popolare. Quella che manca ovunque, alle élite del Vecchio continente. L’Unione europea è priva di accountability democratica e avviluppata in una spirale ragionieristica: sa parlare solo di zerovirgola, mentre sulla politica è afasica.
I vertici degli Stati membri sono tutti indeboliti: l’Italia ha un governo in stand by, il cui unico scopo è evitare una vittoria elettorale di Matteo Salvini; la Francia ha un presidente disprezzato, che ha vinto le elezioni solo grazie al trucco del sistema elettorale pensato per arginare la destra lepenista; in Germania, Angela Merkel è al tramonto, assediata da destra e da sinistra, con un Paese che si prepara alla tragedia sociale di un 23% di pensionati sotto la soglia di povertà entro due decenni; e la Spagna è appesa a un governicchio della non sfiducia, oltre che lacerata da spinte secessioniste aggravate dagli squilibri economici interregionali, aggravati dall’introduzione della moneta unica.