Ah, le vacanze! Periodo di rinascita, per tutti, tempo prezioso da condividere con i figli… a meno che non siano adolescenti. L’alterità di un figlio è qualcosa che sciocca e stupisce fin dal primo momento in cui li teniamo in braccio, ma c’è un periodo glorioso, che è quello dell’adolescenza, in cui questa alterità esplode in tutta la sua brutalità. Pare che nulla di quello che facciamo come genitori venga da loro apprezzato e più andiamo loro incontro e meno ci riesce il contatto. E poi c’è la faccenda dell’educazione che opprime noi che, a nostra volta, opprimiamo loro.
È infatti uno sperticarsi di tentativi di proporre qualcosa che noi avremmo fatto alla loro età, qualcosa che noi avremmo dovuto fare alla loro età o che avremmo dovuto voler fare, se avessimo avuto, allora, il senno di poi che ora abbiamo. In questo modo rischiamo di vivere l’educazione come una pretesa, perché la confondiamo con il tentativo di fare diventare nostro figlio quello che noi vorremmo che fosse, ma a lui di quel che noi vogliamo che sia non gliene importa niente e fa bene. Ma quando parliamo di educazione, di che cosa parliamo?
Recentemente mi hanno provocata e affascinata le parole del prof. Franco Nembrini in un incontro a Cesena su adulti e adolescenti, di rado infatti ho sentito parlare con tanta chiarezza di un tema così urgente. Lo slogan con il quale esordisce sull’argomento è già estremamente eloquente: “Il segreto dell’educazione è non avere il problema dell’educazione, se hai il problema dell’educazione, vuol dire che fai parte del problema”.
Cita poi un vecchio articolo del Corriere della Sera in cui un neurologo infantile spiega chiaramente che un bambino che sta per nove mesi nella pancia di una donna contenta, più facilmente verrà al mondo con un sentimento positivo della vita e la percepirà come una cosa grande, buona, bella. Al contrario, un bambino che passa nove mesi nella pancia di una donna incazzata, arrabbiata con sé, col marito che la tradisce, col figlio grande che c’è già e la fa tribolare, quel bambino più difficilmente sentirà la vita come un bene. Se le cose stanno così, vuol dire che la cosa più importante nell’educazione è far sì che il bambino, e poi il ragazzo, abbia attorno a sé un sentimento positivo della vita da cui assimilare come per osmosi il bello dell’esserci. Come lo apprende? Semplicemente guardando gli adulti che gli danno, con la loro testimonianza, l’idea della vita.
Il problema vero dell’educazione, dunque, è che cosa vede il bambino quando ci guarda. “La prima grande verità” insiste Nembrini “è che l’emergenza educativa in cui viviamo non è l’emergenza di ragazzi che non vanno bene, ma è l’emergenza di una generazione di adulti che non ha speranza sufficiente da dare ai propri figli, non ha un’ipotesi grande per cui vivere. Tutti noi adulti siamo senza alibi. L’emergenza educativa siamo noi. I nostri figli, il loro mestiere lo fanno, lo sanno fare per natura, perché nascono con quella cosa che si chiama cuore, una inarrestabile tensione ad abbracciare tutto, a conoscere tutto, ad amare tutto. E anche se da bambino è inconsapevole di questa tensione positiva, poi, crescendo, comincia a rendersi conto di avere dei desideri. […] Per questo un figlio non ha bisogno che gli si dica spesso che cosa deve fare, come deve essere, non si tratta di insegnargli a diventare grande, perché impara semplicemente guardandoci. Il problema dell’emergenza educativa è chiedersi: quando guarda noi, che cosa vede? Se non si capisce questo, è inevitabile il fallimento, è davvero decisivo questo aspetto, perché è la fonte di tutti gli equivoci. In famiglia, a scuola, in oratorio, il bambino, il ragazzo apprende così”.
Riporta poi un esempio della sua fanciullezza: “Io son certo di una cosa nel rapporto con mio papà. Io avrei potuto giurare, ero bambino, eh, ma avrei potuto giurare che, quando mio padre mi guardava, se riuscivo a intravedere un sorriso, un qualche sorriso, appena appena l’ombra di un sorriso di compiacimento, io impazzivo, io sentivo che mio padre avrebbe dato la vita per me lì, in quell’ora, in quel momento. Avrebbe dato la vita per me, senza chiedermi di cambiare. In questo senso sono sempre stato grato dell’amore che ho colto nella mia storia. […] Ringrazierò mio padre per l’eternità di una cosa: che si è occupato della sua santità, non della mia e occupandosi della sua mi ha reso invidioso, ho desiderato essere felice come lui”.
Rispondere ai figli con una testimonianza così luminosa fa sì che desiderino anche per sé quella contentezza e si avvicinino, invece di sentirci così nemici, così lontani, così estranei. “Perché noi veniamo fuori con delle incoerenze mostruose: parliamo di alti valori e poi l’unico valore del figlio che prendiamo in considerazione è dato dalla performance scolastica, dalla pagella. Quando disubbidisce, quando ti insulta, quando scappa di casa, quando si ammazza di canne in realtà sta gridando: papà, mamma, prete, maestro, maestra, suora, adulto, dove siete? L’educatore è quello che sente il grido di questi ragazzi. Giovanni Bosco, a Torino, andava con le tasche piene di caramelle dalla polizia a chiedere che quei ragazzi di strada li dessero a lui, perché lui riusciva a sentire il grido di quei ragazzi: “Fatemi vedere che vale la pena!” Il problema educativo è tutto qui”.
Se dunque vale la pena, non ci sarà bisogno di tante spiegazioni, ma di un vivere nostro che testimoni la bellezza di diventare grandi.
Fiorenza Cirillo, 12 agosto 2023