La mia presenza su Twitter risale al 2013 ma è sostanzialmente passiva, mai mi sono inserito nei processi interpersonali. A me interessa la vita culturale che qua si svolge, la limitazione delle battute ammesse costringe le persone, poco attrezzate intellettualmente, malgrado spesso siano molto colte, a sbracare e ad apparire proprio come sono. Sono grato agli oltre 5.000 followers che mi seguono, ma come ovvio mi concentro anche sui 300 e passa following che ho selezionato e che studio con grande attenzione e rispetto. Qua c’è l’aristocrazia di Twitter, la pensano quasi tutti nello stesso modo, sono seguaci o di un inglese o di un austriaco o di un tedesco, tutti defunti. Che sia opposto al mio lo trovo ovvio, visto che sono uno dei quattro apòta ancora in circolazione. Mi auguro, per alcuni di loro, che nella vita vera siano diversi da come appaiono su Twitter.
La vera volgarità la trovo in quelli (pochi in verità, ma di altissimo livello) che usano il termine “cialtrone”: l’epiteto più offensivo che si possa scagliare contro una persona, perché la ferisce nel profondo. Non mi è mai successo, ma se qualcuno mi desse del cialtrone rimarrei senza parole, non reagirei, lo confesso, non riuscirei a trattenere lacrime di rabbia e d’impotenza. Per fortuna il mondo è circolare. Ora come la mettiamo se i cialtroni nemici di ieri sono diventati i compari di oggi? A rigor di logica e di coerenza delle due l’una: o chi ieri dava del cialtrone fa autocritica e così si autocertifica come cialtrone o i cialtroni di ieri, diventati i compari di oggi, sostengono che sono gli altri ad essersi adeguati a loro, e allora sono entrambi cialtroni. Un autentico cul de sac dal quale è impossibile uscire. E non si dica: “È la politica”. No, la politica è una cosa alta, questa è spazzatura politica.
Qualche settimana fa caddi in un tranello. Non conoscendo il tedesco, ritenendo vera la notizia pubblicata da un quotidiano nazionale e da un canale della tv di Stato feci un commento su una notizia che credevo vera, invece era una fake truth. Con un tweet chiesi subito scusa, comunicando il mio ritiro dall’attività operativa su Twitter (chi sbaglia paga), salvo per tutto ciò che riguardava Zafferano.news e i Camei del mio Blog.
Da allora mi sono inventato un prototipo di CEO che scrive tweet riferiti esclusivamente al business-management, elaborati con un tecnica di linguaggio mista che ricorda, sia la comunicazione oracolare della Bce, sia quella storica di Radio Londra per paracadutare armi ai partigiani. Nel frattempo mi sono goduto le fake truth che si sono scambiati addirittura due Presidenti della Repubblica (noti birbanti), sulla politicizzazione degli incendi in Amazzonia. Sfugge ai più che differenza ci sia fra un incendio in Brasile ed uno equivalente e contemporaneo (vedi foto satellitari) nelle foreste equatoriali dell’Africa, in termini di distruzione del pianeta, ma tant’è.
Esemplare questo caso che ricavo dal Corriere del Ticino, e l’immagine parziale che lo certifica (Foto Mangueira/AP). Un soldato brasiliano aiuta un giaguaro a guadare il fiume proprio nel punto in cui, vicino a Manaus, il Rio Negro si incontra, fondendosi con il Rio Solimoes, dando vita al Rio delle Amazzoni. Apro una parentesi personale. Chi può vada a Manaus, affitti una barca per vedere questo spettacolo da brividi. Uno freddo e nero (per i minerali di ferro che contiene) l’altro caldo e limaccioso, si incontrano ma non riescono a fondersi per ragioni fisiche, lo fanno lentamente dopo decine e decine di chilometri. Seguirne il processo in diretta è bello. Chiusa parentesi.
Torniamo al soldato, al giaguaro, alla foto che infuriò sui social, in quanto indirettamente simboleggiava lo scempio degli incendi in Amazzonia per colpa del Presidente birbante 1, criticato a sangue dal Presidente birbante 2. La foto faceva capire che il felino sarebbe stato salvato dopo essersi gettato in acqua per sfuggire alla fiamme.
Era, è, sarà per sempre una fake truth, oscenamente geniale, ma falsa. Pardon, il fiume è vero, il giaguaro pure, così il soldato brasiliano al quale si abbraccia. Applicato a quell’evento è un colossale falso. La foto è del 2016, il giaguaro ha addirittura un nome (Jiquitaia) perché è stato adottato dall’esercito brasiliano dopo che cacciatori di frodo gli avevano ucciso la madre. Che dire? Che l’informazione di regime, anche la peggiore, quella para istituzionale, non possa competere con la rete che prima o dopo la becca nelle sue falsità?
Riccardo Ruggeri, 14 settembre 2019